Una donna, un figlio, due cavalli. Davanti a loro si staglia un paesaggio maestoso e ostile da esplorare e attraversare, alle loro spalle si immagina un passato conflittuale, in cui ognuno dei due sembra aver perso sicurezze e affetti. È proprio per recuperare il loro rapporto che Sybille (Virginie Efira) ha portato in vacanza il figlio Sam (Kacey Mottet-Klein) e, per allontanarlo dalle disattenzioni di un quotidiano mal vissuto e mai digerito, a cavalcare nel deserto del Kirghizistan (il film è però girato in Marocco) e cercare una via d’uscita alla crisi esistenziale che li accomuna. La loro relazione è assoluta e frenetica, alterna profondi momenti d’affetto a sfuriate violente, in cui emerge la recriminazione del giovane, in perenne ricerca di figura maschili di riferimento, per le scelte di vita della donna. Sybille è l’elemento apparentemente razionale, tratta il figlio con spensierata cura e lo sprona ad affrontare le asperità scaturite dal caso. Il loro viaggio è però punteggiato da pericoli reali – una donna e un ragazzo, soli a traversare una natura ostica e a gestire incontri non sempre rassicuranti – e la sete di una potenziale redenzione degli affetti sembra trasformare la naturale prudenza protettiva della figura materna nell’onnipotenza di una madre-padrona, mettendo ulteriormente a rischio la fragilità emotiva del figlio.
In Continuer, tratto da un omonimo romanzo di Laurent Mauvignier, Joachim Lafosse torna a scandagliare l’insondabile fragilità dei rapporti familiari. Ma se in Proprietà privata, À perdre la raison e Dopo l’amore tendeva a chiudere i suoi protagonisti tra le quattro mura di appartamenti asettici e soffocanti, in cui si scatenavano le tensioni come su un palcoscenico teatrale, in Continuer quelle mura vengono abbattute e i protagonisti sono abbandonati, come figure nel paesaggio, a scontrarsi in territorio sconosciuto e neutrale. La suggestione del sentirsi liberi e persi risuona nel moto continuo dei personaggi, nel loro andare avanti per dimenticare qualcosa, nella volontà di lasciarsi letteralmente il mondo alle spalle. Questo moto errabondo toglie però compattezza al racconto, che tende anche lui a perdersi e a girare a vuoto, rischiando le stesse sabbie mobili da cui Sybille e Sam riescono a stento a salvarsi.
La bruciante emotività di Dopo l’amore – a cui richiama una delle poche scene al chiuso del film, danzata da madre e figlio con liberatoria leggerezza sulle note di una canzonetta pop – rischia, per assurdo, di venire soffocata dall’immensità degli spazi e dalla natura fin troppo episodica del film. Ne vien fuori un’opera diseguale e un po’ slegata, che vive di momenti intensi e di eccessive intermittenze. Il film, proprio come i suoi protagonisti, per l’ansia di fuggire da sé stesso – fatica necessaria quanto destinata al fallimento – finisce per perdersi e sfumare nel vasto orizzonte delle proprie ambizioni.