Monrovia, Indiana, Stati Uniti. La vita di una cittadina di mille abitanti sperduta nelle grandi pianure del mid-west americano. Le esistenze dei cittadini scandite dal lavoro nei campi, dalle funzioni religiose, le attività commerciali, le sedute del consiglio comunale e le manifestazioni scolastiche. Mentre il tempo sembra non scorrere mai.
È l’America rurale, agricola, lontana dai grossi centri urbani e isolata fra la prateria e il grande cielo ad aver votato Trump. Sono i redneck e i proprietari terrieri bianchi che sparano ai cervi, truccano le macchine e si ingozzano di junk food, quelli per i quali il mondo finisce oltre l’uscio di casa, che hanno formato la base per l’ascesa della politica populista che l’ha portato alla Casa Bianca. Se si pensa che Monrovia, Indiana si risolva in questa considerazione superficiale e sempliciotta c’è molto, quasi tutto di sbagliato. Innanzi tutto perché si riduce il documentario di Wiseman a un film a tesi: una di quelle operazioni utili a liquidare i processi politici e le ere storiche semplicemente traducendo in immagini un certo disagio – tutto intellò – che soltanto chi vuole piegare il ruolo del cinema ad arma di biasimo o j’accuse può forse trovare rassicurante. Rassicurante nella misura in cui assegnare un volto, uno stile di vita e un’identità culturale a ciò che non conosciamo o non capiamo – specialmente se sono volti, identità e culture opposte alla nostra – ce lo rende più sopportabile, facile da derubricare a caricatura, fenomeno da baraccone, freak.
Ma quello che il cinema di Wiseman ci ha sempre detto è che ciò che succede, agisce, vive e cambia intorno a noi non va spiegato, ma prima di tutto osservato. E per questo l’assunto di cui sopra, che è stato inteso da più parti come la sintesi lapidaria di Monrovia, Indiana va accantonato. Anche perché le cose non stanno davvero così. Se pensiamo che di 328 milioni di statunitensi sono 46 milioni quelli che vivono nelle zone rurali del Paese – cioè circa il 14% della popolazione totale – l’incidenza sul dato di voti nazionale (almeno in termini strettamente numerici) in qualsiasi elezione è piuttosto modesta. Inoltre, dati alla mano, lo stato dell’Indiana è uno di quelli in cui i repubblicani hanno sempre ottenuto un consenso molto alto (eccenzion fatta per le presidenziali del 2008 in cui Obama – caso straordinario – sopravanzò McCain di un pugno di voti) e che probabilmente voterebbe (e voterà sempre) per il Grand Old Party a prescindere dal candidato.
No, il discorso di Wiseman è molto più articolato e complesso di così. Lo sguardo del regista britannico sugli abitanti Monrovia anche se pare, in certi tratti, un po’ meno neutrale di quello a cui ha abituato, è ugualmente al solito endemico e rigoroso. Nell’osservazione meticolosa della quotidianità della provincia emerge l’intenzione di fare i conti non tanto con una cultura politica o sociale che si riduce nella definizione di trumpismo, ma piuttosto di uno spazio che ospita una comunità che si è fusa in maniera indissolubile con esso. I confini di Monrovia – al di là dei quali lo sguardo si perde a dismisura – sembrano contenere ben più di un conglomerato urbano. Delimitano un luogo che si esaurisce dentro se stesso. Un territorio che si chiude di fronte alle praterie, che si arresta nel punto in cui il mondo comincia, che si porta malinconicamente in nuce il significato antico di frontiera. Una frontiera moderna che si erge non in termini spaziali, ma piuttosto temporali. E la domanda che affiora non è tanto quale sia il volto dell’America di Trump, piuttosto in quale momento (e luogo) l’America si è arrestata, bloccata, paralizzata tanto da aver smesso di chiedersi cosa ci sia oltre l’orizzonte del proprio sguardo.
Monrovia, con la sua anima compassata, la sua mediocre essenzialità e l’assenza di un qualunque tratto che la distingua dal piattume della provincia – pare che l’unico evento degno di nota accaduto nella cittadina dell’Indiana sia stata una squadra di football del liceo che per qualche anno affastellò trofei nelle competizioni giovanili dello stato: una storia tanto venerata da essere insegnata ai ragazzi a scuola – incarna un sentimento di questo tipo. Ed è ciò che Wiseman intende cogliere.
Il montaggio morbido e ricorsivo del film mette in evidenza un immaginario che sembra filtrato dalla televisione o dal cinema popolare americano. Una banda scolastica riunita in palestra che stona le marcette di fronte a genitori e compagni annoiati come nella sigla de I Simpson (curioso e non casuale che una delle marce eseguite sia proprio la sigla del cartoon di Matt Groening), alcuni attempati cittadini che si riuniscono in una loggia massonica come in Happy Days (mancano giusto i fez di giaguaro) e poi tutta una serie di elementi, luoghi e situazioni che sembrano derivare da tutte le ricostruzioni e le consuetudini espressive con le quali la provincia statunitense è sempre stata raccontata attraverso cinema e tv. Di fatto la possibilità di confronto con quello che grande e piccolo schermo hanno consacrato come un mito. E forse è da leggere qua il vero significato di trumpiano, con un’accezione simile a quella che negli anni Ottanta aveva assunto quello di reaganiano. E cioè come l’affermazione di un modello sociale e culturale che trova nella provincia una genuinità e una scala di valori tanto solidi e sinceri da dover diventare applicabili al resto della nazione.
E allora forse Monrovia, Indiana andrebbe visto come lo specchio di un modello culturale che si è arenato su se stesso, che nella ricerca dell’autenticità e nella messa in pratica di un’autarchia sociale si è visto sorpassare dalla contemporaneità – non si vedono praticamente mai oggetti tecnologici nel film – e resta imprigionato dentro una propria idea di autosufficienza. Non a caso Wiseman dice che nessuno parla mai di politica a Monrovia e che i discorsi riguardano pochi e concreti argomenti come «lavoro, famiglia, salute, automobili, forniture agricole e vicinato», perché il bisogno di confrontarsi sulle questioni politiche non si sente, le questioni politiche sono sistematizzate in quell’eterna celebrazione di riti, abitudini, consuetudini che si esprimono attraverso le attività pubbliche. «Ciò che mi ha maggiormente stupito a Monrovia è una totale mancanza di curiosità o interesse per il mondo al di fuori di Monrovia. Indianapolis è distante solo 45 minuti eppure non ci va quasi nessuno. Non ho mai sentito esprimere interesse per ciò che avviene in Europa, Asia o qualsiasi altra parte del mondo» dice ancora il regista. Ecco, se Monrovia – in ultima analisi – deve per forza essere la risposta a qualche interrogativo, questo dovrebbe essere: dove (e quando) l’America ha smesso di essere curiosa?