I bambini giocano in uno stagno, ridono, si fanno gli scherzi, maschi contro femmine. Poco più in là a giocare e baciarsi, innamorarsi e ingelosirsi ci sono i fratelli e le sorelle maggiori, adolescenti. La camera continua a perlustrare la zona, gira fino a raggiungere gli adulti e gli animali, cavalli e tori che popolano il ranch del celeberrimo poeta che lo abita con la moglie, i figli e i lavoranti. Come è solito fare, Carlos Reygadas sceglie la strada più lunga e meno diretta per portare lo spettatore dentro a questo nuovo dolente racconto delle cose umane, minuscole e universali al contempo. Come in Stellet Licht, anche in Nuestro tiempo la vicenda che mette in crisi il protagonista ruota intorno a pochi basilari elementi: l’amore, la famiglia, le convinzioni, la verità. Qui l’amore però non irrompe inaspettato negli equilibri di una comunità chiusa retta da regole “altre” ma è la Legge stessa che la governa. Una famiglia perfetta, felice, realizzata che, come dicono i lunghi travelling di apertura, si prende il suo tempo (e lo impone agli altri): il tempo della campagna, della natura, degli animali, il tempo della luce del giorno che muta e del vento che si alza cambiando la temperatura. Loro ce l’hanno quel tempo, perché si amano e perché lo fanno sopra ogni cosa.
Poi la macchina da presa entra dentro la casa enorme dove le cose stanno cambiando. Il regno incantato comincia infatti a scricchiolare e le pareti dorate si stringono intorno al padrone di casa mentre fuori incombono i rumori di quella stessa natura che fino a poco prima lo vedeva in posizione dominante. Vacilla Juan (interpretato dallo stesso Reygadas), non perché la moglie (Natalia López, la vera moglie del regista) ha forse un amante ma perché non è più lui ad avere il controllo della situazione, non è più lui a scandire il loro tempo. Sembrano urlarglielo da fuori le finestre i suoi adorati tori il cui muggito lamentoso arriva a intervalli, si ripresenta, ancora e di nuovo. Sembra dirglielo il temporale che incombe. E Juan va in crisi, tanto da spingere la moglie nelle braccia dell’amante, tanto da volerla guardare mentre fa sesso con altri per illudersi – lo dice lei stessa – di esserle ancora vicino come vorrebbe, di essere lui a manipolare la loro realtà perfetta. Juan scalpita mentre il controllo gli sfugge dalle mani, mentre una ripresa aerea che lenisce le sofferenze troppo spesso imposte dalla dittatura dei droni, ristabilisce il punto di vista. Per la prima volta Juan è costretto ad ascoltare le parole della moglie che legge una lettera restando in fuori campo mentre lo sguardo è portato in alto in un lunghissimo volo sulla città che ridimensiona il conflitto, il dubbio e l’universo improvvisamente asfittico dei protagonisti fino ad essere ricondotto al suolo nel rumore assordante del carrello che si appresta all’atterraggio. Una rilocazione che destabilizza e fa soffrire: necessaria, essenziale, umana come lo è l'amore.