Forse è giusto mettere in chiaro due cose sin da subito. Innanzi tutto Suspiria non è il remake del film di Dario Argento. Semmai è il risultato delle suggestioni e dei fantasmi che il film di Dario Argento ha scatenato nella mente di Guadagnino sin da quando – da giovanissimo – vide il film per la prima volta. E poi Suspiria non è un horror, ma piuttosto un film d’autore che pensa, riflette e costruisce un’idea di quale significato (fra i tanti) ha assunto il concetto di male.
Per quanto si presti a interpretazioni e speculazioni di ogni sorta e portata quindi, tutte le valutazioni che vogliano entrare nel merito della cinefilia – citazioni, coverizzazioni, feticismi – appaiono non solo poco interessanti, ma anche decisamente superflue.
Del film di Argento, si diceva, rimane molto poco. Giusto l’anno di ambientazione (il 1977) la location dell’accademia di danza, la giovane protagonista americana che arriva in Europa per diventare una ballerina professionista, le compagne di scuola, le insegnanti e poi lei: la Mater Suspiriorum, di cui sappiamo sin da subito dell’esistenza. Gli autori infatti, intelligentemente, decidono di eliminare dal film sia l’impronta della detection che il mistero intorno alle pratiche stregonesche delle donne che gestiscono la compagnia di ballo. Visto che la trama del cult del 1977 è arcinota praticamente a chiunque, la sceneggiatura non è costruita intorno a un vero e proprio mistero (anche se un twist finale inaspettato c’è) e nei primi minuti di film vengono di fatto squadernati molti degli elementi che il film di Argento celava quasi sino alla fine.
La novità più radicale rispetto a Suspiria 1977 è lo spostamento dell’azione da Friburgo a Berlino. La capitale tedesca divisa, il muro ancora in piedi, le bollente stagione politica che la Germania viveva nei tardi anni Settanta diventano immediatamente temi centrali del film. La banda Baader-Meinhof sta compiendo il proprio declino in un’escalation di violenza (nel film si fa riferimento alla morte di Ulrike Meinhof – avvenuta in prigione nel maggio del 1976 – mentre il suicidio di Andreas Baader si sente annunciare in un notiziario), nel frattempo sullo sfondo della divisione fra est e ovest resistono ancora tensioni ereditate dagli anni del Terzo Reich. Molta, decisamente troppa carne al fuoco per un film che già dopo la prima mezz’ora sembra voler parlare di un’infinità di cose tutte insieme e che rischia seriamente di sbandare. Eppure l’ambientazione berlinese offre a Guadagnino l’opportunità di una ricostruzione degli anni Settanta che ha dello stupefacente. Non solo i luoghi, gli scorci e le vedute di una città costantemente annaffiata dalla pioggia, ma anche un’atmosfera livida, malinconica e quasi di sospensione temporale che crea un fascino innegabile e che è probabilmente la cosa che a Guadagnino riesce meglio.
Su questo côté politico è innestata una riflessione che ha a che fare con il tema della colpa come substrato ontologico che esula dalle questioni puramente tedesche e diventa uno status che coinvolge tutti quanti. Attraverso il personaggio del dott. Kemperer (lo psicanalista che ha in cura Patricia, una delle allieve della scuola), gli autori tentano di dare personificazione all’impossibilità di assoluzione insita nella natura umana e forma al peso di un fardello che non ci si può esimere dal portarsi addosso. Metaforicamente la Germania della fine dei ’70 è un inferno in terra da cui non è data la possibilità di uscita se non nell’accettazione della colpa stessa e – allo stesso modo – del male.
Già il male. Come si diceva il film è una riflessione sul tema universale del male e se non tanto sulla sua natura, quanto sul suo essere connaturato con l’esistenza. La Mater Suspiriorum incarna il male supremo, inesplicabile e disumano nel senso che non appartiene all’uomo, ma piuttosto lo domina e ne abita la mente. Un male quasi necessario, a cui aderire o abbandonarsi nel momento in cui gli altri mali – il terrorismo e il passato Nazista che ritorna – hanno sembianze troppo umane per essere sopportati. I semi sono dappertutto: nei luoghi, nelle relazioni fra i personaggi, sui loro volti e ovviamente sui corpi. La danza del resto per Guadagnino è il veicolo attraverso cui il maligno si rivela nel mondo reale e nella vita di tutti i giorni. Come un rito ancestrale il ballo rivela l’essenza di un male che nel mondo esiste e cammina insieme agli uomini ancora da prima del divino (come vien detto nel film). E la sequenza senza dubbio più eccezionale del film è quella in cui l’uccisione di una delle allieve viene mostrata attraverso una performance di danza. Il montaggio, strepitoso, mostra due corpi mentre ballano esprimendo una possessione demoniaca della quale sono incapaci di trattenere la violenza. Una morte rappresentata senza versare una goccia di sangue e che rende molto meglio delle parti splatter – troppo deboli e confuse – l’essenza fisica e materica dell’orrore.
Inoltre a contenere questa forza esiziale sono corpi, come quelli delle ballerine, che coniugano la grazia alla forza fisica e sono capaci di terrorizzare con un solo gesto, un movimento, un salto. Corpi di donne cangianti, mostruosi e allo stesso tempo armoniosi, fragili e bellissimi. Sono loro – le donne – a mettere in discussione l’ordine del mondo, loro le uniche in grado di disseminare la morte (oltre che la vita). E il messaggio più incisivo di Suspiria – 2018 – è senz’altro questo. Le streghe son tornate. Era ora.