Un gioco di prestigio, un numero di destrezza, l’ultimo trucco, postumo, di un maestro dell’illusione e dell’illusionismo.
The Other Side of the Wind somiglia al gioco delle tre carte, tranne per il fatto che qui invece di carte ci sono film, non uno solo ma appunto tre, che si somigliano tra loro al punto da confondere lo sguardo. Il primo è quello del titolo: opera maledetta di un cineasta geniale ma in disgrazia come Welles, costretto a mendicare soldi dove capita e a sospendere la produzione ogni volta che il borsellino è vuoto. Il progetto si snoda lungo gli anni Settanta e fino all’inizio degli Ottanta, poi la morte del regista consegna alla storia un magazzino pieno di pellicola (circa 100 ore di materiale girato), una bozza di montaggio, un repertorio di litigi epici su chi debba effettivamente assumersi la responsabilità di dare al film una forma compiuta. E naturalmente, il rumore di fondo della critica convinta che i film non fatti dei registi incompresi siano sempre più belli di quelli realizzati dai cineasti compresi (e comprensibili).
È così che la fama di The Other Side of the Wind – per via della sua incompiutezza e delle ragioni economiche che l’hanno determinata – cresce a dismisura, sino a quando la sua visione – e siamo al secondo film, quello visto a Venezia – rivela una storia incredibilmente simile a quella appena raccontata. Un regista carismatico e ribelle (interpretato da John Huston), una festa di compleanno in suo onore, una pattuglia di critici in adorazione e di produttori in fibrillazione, il suo ultimo film – naturalmente incompiuto, naturalmente maledetto – proiettato per gli ospiti. Parti del quale – e siamo al terzo film – scorrono sullo schermo anche per noi spettatori, che con gli ospiti della festa condividiamo dunque la visione di una serie di sequenze girate in esterno e incentrate su due personaggi, un ragazzo e una donna, che si inseguono, perdono e ritrovano sullo sfondo di scenari soleggiati.
In questo modo il secondo film ospita il terzo, i confini dell’uno si perdono in quello dell’altro, generando quell’effetto di trompe l’oeil prediletto da Welles sin dai tempi della neve nella palla di vetro in Quarto potere. Ma a stupire è soprattutto l’altro trompe-l’oeil, considerato che The Other Side of the Wind viene girato da un regista che non poteva sapere quale sarebbe stato il suo destino, tanto meno quello del materiale girato: l’effetto prodotto dalla capacità di anticipare, nel chiacchiericcio pseudo-intellettuale e nella falsa profondità che segnano il rapporto fra il “maestro” e i suoi ammiratori, la magniloquenza e l’enfasi che avrebbero poi accompagnato il rimpianto della critica per il fallimento del progetto, esclusivamente in ragione del fatto che fosse fallito.