Il mondo è in fiamme. Cosa fare quando il fuoco non cova più sotto la cenere ma divampa? Questa la domanda che si pone Minervini in What You Gonna Do When the World's on Fire?, il documentario girato all’interno della comunità afroamericana di New Orleans. Immergendosi nuovamente nei meandri più profondi della società americana, questa volta Minervini affronta la questione delle radici del razzismo nel sud del Paese continuando sulla strada di quella scrittura cinematografica del reale in cui drammaturgia e documentazione si compenetrano e si ridefiniscono (a volte rischiando che la seconda assecondi fin troppo la prima).
Quattro storie che si incrociano, quattro finestre aperte su un mondo e sulle origini della dinamiche che lo muovono ma che, parallelamente, sembrano bloccarlo: Ronaldo e Titus, due fratelli che passano le loro giornate a zonzo già sapendo che a casa la mamma li aspetta per far loro l’ennesima ramanzina che li metta in guardia sui pericoli che corrono per strada; Judy ex ragazzina abusata, ex crack addicted, ex proprietaria di bar che dispensa consigli e cerca di motivare parenti e amici a reagire alle difficoltà della vita, a credere nelle possibilità date della propria forza di autodeterminazione; la preparazione da parte degli indiani della sfilata del Mardi Gras con la meticolosa confezione dei costumi tra i canti tradizionali e la minuziosa applicazione delle perline; e infine un piccolo manipolo di Black Panthers che marciano per le strade invocando giustizia per i fratelli neri uccisi dalla polizia.
Chiamando in causa le conseguenze di una storia che ha marginalizzato un’intera comunità non solo relegandola ai margini della società ma anche lavorando sulla sua stessa identità in modo mortificante, Minervini racconta alla sua maniera nella questione black che tanto spazio ha conquistato nel cinema, e non solo (basti pensare al grande successo di Ta-Nehisi Coates e del suo Tra me e il mondo), degli ultimissimi anni. «Forse c’è stato, in qualche momento della storia, un grande potere la cui affermazione è stata esente dallo sfruttamento violento di altri corpi umani. Se c’è stato, io non l’ho ancora trovato» scrive Coates a un certo punto rivolgendosi a suo figlio. E quel corpo nero, sfruttato, violato, battuto, messo perennemente a rischio non solo dal potere dei bianchi ma anche dalla violenza perpetrata dagli stessi padri e fratelli che lo hanno mortificato, è lo stesso su cui insiste - guardandolo da vicinissimo - l’occhio di Minervini.
Corpo ma anche parola, non quella feroce, lucida e poco speranzosa dell’analisi dello scrittore americano ma quella enfatica, quasi svuotata di significato dalla sua stessa retorica, pronuniciata dai personaggi raccontati. Una specie di mantra che si ripete sempre uguale in un loop consolatorio che sembra privo di una reale possibilità di azione sulla realtà. Un movimento en boucle che è anche quello del film che non offre alla narrazione una progressione, un'apertura o una possibile evoluzione (come invece era nei film precedenti) ma si ripiega in una circolarità che non sembra contemplare vie d’uscita ma che, non di meno, solleva questioni urgenti. E non solo per la società americana.