“Molecole è sgorgato” dice Andrea Segre. Un'azione che difficilmente si può applicare a un’opera cinematografica fatta di ideazione, scrittura, revisioni, confronti, organizzazione. E invece Molecole è così, una specie di flusso di coscienza, intimo e sospeso, un discorso allo specchio che si definisce nel suo farsi. Una lettera d’amore, una lettera di commiato ma anche una seduta di psicanalisi, un articolo di quotidiano, una pagina di diario, un film di fantasmi. Molecole riesce a essere tutto questo perché nasce per caso, colto di sorpresa come il suo regista.
Bloccato dal lockdown in una città con cui ha legami fortissimi ma anche rarefatti, riscritti un po’ per caso un po’ per scelta dalla vita e dalla morte, si trova infatti inaspettatamente a guardare il presente e, al contempo, a frugare nel passato per interrogarsi sul futuro. Preso alla sprovvista come tutti noi che ugualmente, tra febbraio e marzo di quest’anno, siamo stati messi di fronte a una realtà totalmente imprevista e imprevedibile che stava trasformando (forse per sempre) le nostre abitudini e la nostra percezione del tempo, dello spazio, delle relazioni. Segre si trova a Venezia e lì - come in una vecchia casa di famiglia di cui ricorda poco, di cui conosce poco - si mette a guardare intorno, dentro e dietro di lui. Scrutando le acque della laguna dalle quali spariscono le onde indotte dalle imbarcazioni fuori luogo, mettendosi all’ascolto del silenzio inaspettato delle calli lasciate vuote dal dileguarsi dei turisti, si abbandona al suo sguardo inorganizzato. E lo segue, lo asseconda, come si fa con i flutti, con la marea, con la risacca.
È forse questa la qualità principale di Molecole, la capacità di coinvolgere proprio per la mancanza di programmaticità, per la spontaneità inquieta, per la naturalezza elementare; in questo infatti ci si riconosce, ci si rivede, come spettatori e come individui che hanno appena vissuto – ognuno a modo suo – quella stessa esperienza: si resta lì a guardare senza davvero capire ma provando a chiedersi delle cose. Incuriositi, sgomenti, paralizzati ma anche desiderosi di cogliere l’attimo. Così, davanti a un presente che è impossibile distinguere, al quale è impossibile aderire ma che comunque ti travolge, scoperchiando, confondendo, disorientando, prendono forma i fantasmi. A cominciare da quello del padre che per tutto il film emerge dalle immagini per poi saparire nuovamente, solitario, enigmatico, misterioso, straniero come il protagonista del romanzo che tanto ama, difficile come la fisica che studia. Attraverso il suo apparire e sparire, attraverso la voce del figlio che lo cerca, attraverso gli accadimenti di un destino al quale comunque si deve far fronte, ritornano gli echi di un passato mai davvero ascoltato e risuonano in quella bolla di silenzio dai contorni sempre più vaghi, creando ipotesi su quello che sarà. Forse.
E in quella stessa bolla prende corpo un film senza direzione eppure diretto in modo quanto mai soggettivo. Un film che si muove attraverso forme e tempi che si sovrappongono, senza rispondere davvero a un progetto narrativo ma fluttuando l’uno nell’altro, l’uno sull’altro. E ritorno. Tra interviste e vecchi home movies, tra fotografie evanescenti e riprese nitide, tra lettere dal passato e possibilità per il futuro, tra riflessioni sociologiche e confessioni personali, il film si materializza. Emerge e si inabissa, svelato e ricoperto dalla marea dell’indefinitezza, si apre e si richiude, senza mai veramente dire, senza mai andare in una direzione precisa, senza neppure cercarla.
Sincero come una pagina di diario, intimo come una confessione, generale come un’esperienza mai così condivisa, precario come l'esistenza stessa, Molecole si lascia trasportare dagli elementi che lo mettono in forma riflettendo sul legame profondo e imperscrutabile che lega l’humanus al suo stesso humus. Un altro pianeta nello stesso mare. Lo stesso pianeta in un altro mare.