Per buona parte del film, la figura di Cemal, il dottore, è una delle tante che partecipano a questo quadro della profonda Turchia abitato da morti/vivi (o vivi/morti, se si vuole) meritevoli più di pietà che di dileggio o di condanna. A mezz'ora dalla fine lo si vede per la prima volta solo e nel suo studio. Scorrono davanti ai suoi e ai nostri occhi delle fotografie: un percorso a ritroso attraverso anni ormai consumati, morti. Improvvisamente, Cemal guarda per una decina di secondi nell’obiettivo. Una mossa repentina, che ci coglie di sorpresa e ci mette allo scoperto. Poi un controcampo rivela la presenza di uno specchio davanti a lui. Cemal, nell’inquadratura precedente, “guardando in macchina” e in ultima analisi scrutando noi negli occhi, contemporaneamente vedeva sé stesso. E se ciò a cui pensava in quel momento era, verosimilmente, il sentimento di morte veicolato dalla visione delle fotografie, oltre che dal suo presente di (voluto?) sradicamento, nel nostro sguardo per un attimo indifeso ha trovato la conferma: morte e vita riecheggiano l’una nell’altra, come le ultime inquadrature del film suggelleranno, con la macchia di sangue proveniente dal cadavere dissezionato ben visibile sulla guancia del dottore, che dalla finestra osserva il figlio del morto calciare a tutta forza un pallone.