Film esorbitante, che assorbe l’attenzione e la cognizione dello spettatore ed esige di avere la sua anima in cambio dell’emozione e dell’eccezione. Come gli angoli più reconditi del magazzino dell’usuraio Mefistofele, che raccolgono le vite di tutti coloro che hanno incominciato a perdere qualcosa prima della morte, anche lo schermo è zeppo di corpi e di oggetti. Per lo più bassi: membra e grasso, budella, cibo, vestiti sporchi e logori, acque di risciacquo, fango di ciottoli scivolosi, muri che imbrattano chi passa. O altissimi: corpi femminili nudi, abiti oriental-lisergico-felliniani, tagli di inquadratura perfetta. Bosch che illustra l’Inferno dantesco, Dürer che da lontano riprende la scena, con una mano tesa a Murnau (la scelta del formato 1:37, la scena di apertura come un calco filologico). Film di movimenti a spirale intorno a Mefistofele, sformato e deformato nella carne come un birillo, una pera, una trottola, un alambicco, un perno. Intorno a lui, le vite degli altri scivolano, si increspano, faticano a passare.