* Testo estratto dal saggio contenuto nel Catalogo generale del Bergamo Film Meeting 2018.
Nel novembre del 1989 Barbara Albert non aveva ancora vent'anni e, visto da Vienna, dove era nata e dove all'epoca studiava teatro e filologia germanica, quello che accadeva in quei giorni a Berlino doveva avere un senso molto particolare. Nell'onda d'urto provocata dalla caduta del Muro, la sua generazione doveva infatti sentire la spinta per superare la condizione storica dei padri austriaci e dei loro figli, che la guerra e il lunghissimo dopoguerra avevano relegato ai margini del cuore spiazzato e spezzato della vecchia Europa.
È in questa temperie che Barbara Albert radica il suo cinema, tanto ampio e indefinito quanto intimo e sensibile. Un cinema fatto di relazioni umane avvinghiate alla loro esilità, alla reciproca richiesta di solidarietà, che impallidisce dinnanzi alla visione indifferenziata del mondo circostante, tanto quanto si fortifica nel dialogo implicito e introspettivo che si instaura tra le figure, a dispetto del loro isolamento e della distanza che spesso le separa. La visione storica e sociale espressa dalla regista è il frutto di un umanesimo residuale, eppure ancora alto e solido, fatalmente sganciato dalla centralità della Storia, ma di certo non ignaro della sua valenza, e magari anche sospinto in una sensibilità meramente empatica e tardamente infantile, che giustifica una visione a suo modo lirica e irrazionale del mondo. Tutto questo è la risultante di un confronto costante tra le attese e le delusioni dei suoi protagonisti, il frutto dello spiazzamento tra la forza e la debolezza di figure che sono spesso tanto irrealizzate nelle loro esistenze quanto inespresse nei loro sogni. Il punto focale su cui si articolano le opere di questa regista è in effetti proprio lo scarto tra separatezza e comunione in cui si riconoscono i suoi personaggi, il transito spesso trasparente e impercettibile tra l'esperienza di una solitudine che diventa astrazione in un universo intimo e sognante (di cui sono incarnazione – reale o anche vagamente simbolica – i tanti bambini dei suoi film), e l'esperienza vertiginosa e espropriante, ma necessaria, di una comunità in cui riconoscersi per stabilire un contatto, una dimensione esistenziale concreta e autentica. Le sue figure si muovono su una scena schiacciata sotto il peso dell'immanenza di un presente che definisce i confini reali delle loro azioni, ma allo stesso tempo sospesa su un insistente rimando a un altrove ideale, cui sono istintivamente e magari anche irrazionalmente consegnati.
Sono tutti vettori, tematici e stilistici, che confluiscono coerentemente nella sua opera prima, Nordrand – Periferia Nord, in cui la regista raccoglie il testimone di una coralità disposta a dialogare con gli individui sulla base di una corrispondenza di sogni e delusioni che rendono pregnante e permeabile l'umanità. La trasversalità narrativa cercata dalla Albert è il frutto di un bisogno di rendere circolare e condiviso il portato esistenziale che è alla base del film, quel misto di solitudine e corrispondenza che definisce la natura delle relazioni. È proprio questa sorta di emozione corale, questa trasfusione di energie emotive, stati d'animo e consapevolezze acquisite, il volano che fa muovere la sua opera seconda: Böse Zellen è infatti un film che nasce dall'idea di commutare in una tessitura narrativa collettiva quasi immateriale l'esperienza esistenziale storicamente incarnata nel gruppo di protagonisti di Nordrand. Il film intrattiene col tempo della vita un rapporto silenziosamente empatico, costruito sulla relatività dei sentimenti e sulla condizione di solitudine che fondamentalmente descrive l'umanità della Albert, senza che questo si prospetti come un mandato esistenziale inalienabile.
Il successivo Fallen si connota sin dal titolo come un film dotato di una forza di gravità tutta sua: tanto Böse Zellen seguiva prospettive aeree che risuonavano da un altrove spirituale, tanto Fallen si incarna in un confronto prettamente esistenziale in cui il destino corrisponde al grado di riuscita delle rispettive vite delle cinque amiche protagoniste. È il film a suo modo più disperato della Albert proprio perché monco del peso della responsabilità proiettato nei film precedenti dalla dimensione storicistica, dal confronto con l'Altro che è garanzia di responsabilità e prospettiva ulteriore. Il successo, il fallimento, le attese di queste cinque amiche restano uno spaccato sensibile e dolce, ma fatalmente in sé concluso, che sembra consapevolmente consegnare la regista a una prolungata pausa (dovuta anche alla sua maternità) dalla quale tornerà con nuove prospettive.
Quando infatti nel 2012 ritorna dietro la macchina da presa per realizzare Die Lebenden, lo fa per ristabilire un contatto pieno e profondamente consapevole con la Storia. Si tratta di un chiaro esercizio di posa in opera drammaturgica del dissidio su cui implicitamente tutto il suo cinema si è sempre basato. Ed è proprio in questa incisività quasi didascalica che risiede la ragione della sua maturità, nella misura in cui la regista dismette volontariamente quell'assetto trasversale, trasparente e collettivo che nella prima stagione ha segnato le sue storie, per affidarsi al dramma intimo e radicale di una ragazza che dal cuore dell'Europa più sazia e benestante si spinge a Est, nella profondità delle sue radici (la Transilvania rumena), per scoprire i peccati del padri dei padri, guardarli in faccia e poter infine osservare per la prima volta se stessa. Non stupisce dunque che il passo successivo sia stato un vero e proprio tuffo nella Storia della sua Austria per cogliere, in quello che è il suo primo film in costume, le abitudini e le contraddizioni della società borghese e aristocratica della Vienna Rococo del 1777. Nella storia vera di Maria Theresia Paradis, ragazza cieca dotata di un grande talento musicale, che divenne un'attrazione dei salotti aristocratici viennesi e fu curata da Franz Anton Mesmer, Mademoiselle Paradis trova infatti le coordinate per spingere ancora più indietro l'analisi del contrasto tra l'individuo e la società di cui è parte. C'è in questa ragazza tutta la purezza incondizionata delle bambine che hanno attraversato i suoi film, declinata però nella sua volontaria e dolorosa sottomissione all'universo in costume degli adulti.