Impressionista. Così Rati Oneli definisce il suo film Mzis Qalaqi - City of the Sun. Una scelta puntuale e precisa per descrivere con una sola parola un documentario che, pur essendo per sua forma legato al reale, riesce a tratti a farsi astrazione pura.
Quel che Oneli sceglie di mostrare è infatti la città di Chiatura, in Georgia, suo paese natale. Un luogo che rimanda alla Città del sole di Tommaso Campanella, tanto visivamente, essendo arroccata su una collina verdeggiante e circondata da mura (anche se, certo, non sette, e di cemento), quanto – a suo avviso – nell’ideale utopico che rappresenta: una realtà regolata da giustizia, sapienza e senso comunitario, in cui «la comunità tutti li fa ricchi e poveri: ricchi, ch’ogni cosa hanno e possiedono; poveri, perché non s’attaccano a servire alle cose, ma ogni cosa serve a loro»; una realtà in cui, nonostante i pesi dell’esistenza, i suoi abitanti non smettono mai di progredire, di far sì che la vita prevalga su tutto.
È puramente filosofico, perciò, il senso del titolo. Chiatura infatti, attraverso lo sguardo del regista georgiano, appare come l’esatto opposto di una città luminosa e “del sole”: moltissime scene sono girate in interni bui (case mal illuminate o miniere), mentre all’esterno il cielo non è mai terso e la luce mai abbacinante (piove, c’è foschia). La città è, inoltre, estremamente statica, percorsa da un costante senso di desolazione. A suggerirlo, una serie di brevi sequenze, sparse lungo l’intero film, come per esempio l’emblematico momento in cui un branco di mucche che pascolano all’interno di un edificio semplicemente scompare, lasciando una sola di loro isolata, incastrata ad un piano inferiore e visibile da un’apertura nel pavimento. Ma gli input astratti, rivolti in tale direzione, si susseguono costanti, dalla morte di un’ape sul davanzale, a un’ossessiva ricerca da parte della macchina da presa di sedie vuote, accantonate.
Chiatura è una città abbandonata, dunque, inghiottita dalla vegetazione, attraversata dagli squarci scuri delle cave, in cui i suoi cittadini si muovono quasi sempre soli. Ben differente, invece, ciò che avviene negli interni: è lì, nelle case, nel teatro, nelle sale della comunità, che la gente si incontra, ride, balla, canta e suona, con una passione per l’arte che, ancora una volta, rimanda alla società ideale di Campanella. Una condivisione che Oneli osserva sempre con estrema discrezione, posizionandosi a distanza, fuori dalle stanze o in fondo ad esse, ma che, di nuovo, rappresenta la reale pulsione di vita che sottostà al vuoto e alla desolazione.
Una pulsione che si esprime forte, registicamente, nella costante ricerca di movimento: i minatori salgono e scendono lungo le ferrovie sotterranee; una coppia danza; i corridori non si fermano mai, nonostante la fame; e in chiusura, dopo un brindisi “al mondo grigio, al secolo grigio, alla città grigia”, i bambini corrono sotto la pioggia, mentre il treno ci conduce verso un nuovo macchinario all’opera, intento ad abbattere un muro in cemento armato. È un finale che lascia vincere il progresso, la resilienza, la spinta vitale.