Li vedi lì, sullo schermo, i giovani tedeschi che negli anni Sessanta sconvolsero il loro paese, lì vedi nei filmati dell'epoca, nel bianco e nero e nei colori opachi della tv, dei dibattiti in studio e dei film avanguardisti, e non sai come prenderli.
È quasi come se li vedessi per la prima volta, quando invece sono anni che continuiamo a raccontare e ricordare la stessa, tragica e appassionante storia di sempre: della visita dello scià di Persia nel 1967, delle proteste degli universitari, delle botte con la polizia, della morte di Benno Ohnesorg, della successiva radicalizzazione dello scontro politico, del '68, dei collettivi comunisti, soprattutto di Ulriche Meinhof, celebre giornalista televisiva che un giorno decise di imbracciare le armi, e dei suoi compagni della RAF, Andreas Baader, bello e strafottente come un divo, e Gudrun Ensslin, ancora più bella, aggressiva e seducente...
Perché? Perché siamo ancora fermi lì, agli anni Sessanta e Settanta della protesta e dell'utopia, della follia ideologica e delle bombe rosse?
Une jeunesse allemande di Jean-Gabriele Pèriot, presentato a Panorama Dokumente, se lo chiede come domanda esistenziale e storica, più che politica, forse anche come una questione estetica. Nelle immagini d'archivio che monta quasi senza commento, seguendo una progressione cronologica corretta, dalle proteste ai suicidi nel carcere di Meinheim e al dirottamento a Kinshasa di un aereo della Lufthansa, ciò che resta delle immagini di un mondo e di un'epoca lontanissimi eppure immediati è un grande, inesplicabile dubbio; o più ancora una paura: la paura che quelle proteste, quei giovani e quegli anni, siano stati gli ultimi sussulti di un mondo in declino, che non era certo il tardo capitalismo, come sostenevano i giovani avanguardisti comunisti di Berlino Ovest, Amburgo e Monaco, ma un mondo come lo conoscevamo e come non c'è più, dove ancora poteva esserci una qualche libertà di azione, di pensiero, di rivolta, anche di errore, e in cui si poteva intravedere uno schema verticale, di potere e di opposizione, di nemici reali da combattere, e non l'indecifrabile molteplicità e confusione in cui siamo sommersi, in cui ogni azione, pensiero, rivolta o di nuovo errore si disperde in mezzo a mille altri uguali e contrari.
Oggi fa un po' sorridere sentire dalle parole della Meinhof, montate nei primi minuti del film, che i tedeschi prima della visita dello scià di Persia, evento violento e scioccante da cui tutto si scatenò, «sapevano poco della polizia di stato, delle violenze e delle atrocità del regime». Oggi non è più immaginabile "sapere poco", oggi sappiamo tutto, e forse è proprio in questa ossessione di completezza, di totalità, è in questa estrema forma di libertà, che sta la paura di Pèriot. La paura della libertà come annullamento del dissenso, la libertà come anestetizzante.
La risposta sul perché ancora ci interessi tanto questa storia, in fondo la dà Fassbinder in un frammento di Germania in autunno montato nel finale: il terrorismo fa paura, il terrorismo richiede leggi diverse e azioni anti-democratiche, perché a differenza della criminalità comune chiama in causa la partecipazione di ciascuno di noi alla vita pubblica, fa sorgere il dubbio che i terroristi, pur sbagliando, possano avere ragione. «Li temi perché hai paura di essere d'accordo con loro» dice Fassbinder alla madre, zittendola.
In fondo, questi vecchi terroristi, che sono belli, sono avventurosi, tragici ma anche un po' eroici perché ormai innocui, li abbiamo capiti e inquadrati perché erano uguali a noi, erano un lato oscuro, uno sfogo. Mentre quelli di oggi, in tempi di altri fondamentalismi, altre folle che non ci appartengono, quelli proprio non sappiamo capirli. Non sappiamo guardarli, oggi, e forse domani non sapremo come raccontarli, nemmeno a quaranta e passa anni di distanza.