È domenica 12 febbraio. Il primo film che vediamo - noi giornalisti e la giuria del Concorso, qui sopra immortalata nei ritratti esposti al primo piano del Palast - è Spoor, che significa “impronte animali”. Quali saranno le impronte che lasciamo noi mentre ci allontaniamo dalla sala dopo la proiezione?
Il corridoio che percorriamo è rosso/passione e contornato da fiori bellissimi. Purtroppo non si può dire lo stesso del film. Passione poca. Fiori nessuno. Ma che strano vedere sul mega schermo di fianco al casinò il volto della regista del film Agnieska Holland e della sua protagonista, Agnieszka Mandat-Grabka
e subito dopo vedere lo stesso volto, dal vivo, durante la conferenza stampa.
L'esercito dei fotografi e dei paparazzi è incombente. Ma basta l'inquadratura giusta per metterlo fuori gioco.
Il sistema Festival, anche quando è così ben organizzato (forse ancora di più) è complesso, contraddittorio, e genera ambiguità.
Un po' come in quest'ultima foto: l'immagine di un'immagine.
Quella di critici che “tra-scorrono” davanti a vetrine speculari, appena usciti dall'ennesima metaforica caverna platonica.
Lunedì 13 febbraio inizia una nuova settimana, e per Helle Naechte (Notti chiare in italiano) sono pochi quelli che raggiungono il Palast per tempo.
I tedeschi sono strani. L'altro giorno per Wilde Maus, un film austriaco di Josef Haeder, tutte le sale erano esaurite. Oggi, per questo film che parte proprio da Berlino e ci porta in Norvegia, seguendo il difficile rapporto tra un padre e un figlio (adolescente) che non si conoscono quasi per niente, l'entusiasmo è molto minore.
Eppure i tratti positivi ci sarebbero anche: una storia che si prende il suo tempo, due protagonisti credibili e dall'interpretazione molto misurata, una bella coerenza tra i caratteri messi in scena e il paesaggio che li accoglie. Al centro, la costante difficoltà di un rapporto. L'impossibilità di comunicare. A Michael era capitato di entusiasmarsi per il lavoro del proprio padre, scegliendo poi di stare in quello stesso campo. Ma per Luis, suo figlio, i due mondi sono troppo distanti. Totalmente incompatibili. E neppure un forte bisogno d'affetto, di un contatto, di un abbraccio, potranno far breccia in un muro alzato per così tanti anni.
Servirebbe un passaggio, un corridoio, magari anche della paura, che ci traghettasse verso l'altro. Dall'altra parte.
Oltre alle code che convincono i fan a sedersi, quando è ancora buio, davanti al box office, in attesa che apra per assicurarsi un prezioso biglietto.
Oltre alla mia immagine, che mi spia dal finestrino di fronte della S-Bahn, quando raggiungo Potsdamer Platz per le prime proiezioni del mattino.
Oltre ai manifesti dentro all'Hyatt, che ti spingono a ripensarci, anche se con ironia. A rivedere tutto. Ma non eravamo proprio qui per quello?
Oltre ai rami di pino, che si agitano sulla mia testa di notte, scossi da un vento leggero che fa scendere ancora di più il termometro dai -8 dell'altro pomeriggio.
Oltre allo scorrere, senza soluzione di continuità, da un posto all'altro, da una sala all'altra, da una proiezione all'altra. Flusso che ti fa sentire bene in certi momenti, meno in altri, quando, dall'alto, stenti a vedere la differenza tra te e il criceto della vetrina dei pets dietro l'angolo.