Panorama

Human, Space, Time and Human di Kim Ki-duk

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Kim Ki-duk non è mai stato interprete di un cinema particolarmente sottile, sfumato o enigmatico. Al contrario è un regista che, soprattutto negli ultimi anni, ha fatto sua una forma espressiva nella quale va dritto al punto, accumula, eccede e satura di simboli e metafore ogni storia che racconta. In quest’ottica era abbastanza prevedibile che prima o poi arrivasse un film come Human, Space, Time and Human. Un’opera cioè nella quale tramite un’astrazione quasi totale, Kim riesce a mettere in forma un universo fortemente soggettivo e all’interno del quale gioca con le allegorie, le figure e i simboli in maniera libera. Gettandosi a capofitto nelle tematiche tipiche del suo cinema – soprattutto di natura spirituale come il peccato, la colpa, l’espiazione, il sacrificio, il pentimento – senza alcun timore di sbagliare o trascendere, ma attingendo a piene mani dal proprio repertorio.

La storia – divisa nei quattro capitoli cui fa riferimento il titolo – racconta di un vecchio incrociatore militare coreano che naviga in mare aperto. A bordo l’umanità più disparata: fra gli altri, oltre all’equipaggio, c’è un importante politico con il figlio, una banda di gangster, un gruppo di prostitute, alcuni piccoli truffatori e una coppia di fidanzati giapponesi. Insieme a loro un misterioso anziano che non parla e coltiva piante da frutto e alleva polli nascosto nel fumaiolo della nave. Una mattina i passeggeri, al risveglio, si accorgono che l’imbarcazione non sta più navigando sull’acqua ma fluttua nel cielo. Non appena tutti si rendono conto che la condizione non è destinata a mutare e inteso che le scorte di cibo sono limitate, la lotta per sopravvivere dà luogo a una guerra fratricida nella quale vige la legge marziale. I forti prima assoggettano i deboli, poi iniziano a farsi la guerra l’un l’altro in un massacro nel quale a scamparla sarà solo una donna: la ragazza giapponese che porta in grembo un bambino latore, forse, di una nuova speranza.

C’è un proliferare di simboli religiosi piuttosto semplici da comprendere dentro Human, Space, Time and Human. L’incrociatore che beccheggia fra le nuvole è evidentemente un microcosmo fuori dallo spazio e dal tempo in cui è racchiusa tutta la storia dell’uomo. Più che una sorta di Arca di Noè (al contrario), però esso rappresenta un inferno che muta, molto lentamente, in un Giardino dell’Eden. Il peccato, la violenza e tutte le peggiori passioni umane, insieme al vizio, portano l’umanità a una (quasi) totale autodistruzione, ma è solo attraverso l’annientamento di tutto ciò che è umano – visto che la colpa si espia sempre e solo con la morte – che la stessa umanità è in grado di rifiorire. E ciononostante di ricominciare a commettere i medesimi errori. È questo il messaggio di fondo che Kim intende far passare. Eppure che tutto possa essere interpretato esclusivamente come una parabola biblica, pur sapendo della fervente fede cattolica del regista, sembra un esercizio riduttivo.

Lo spiritualismo di Kim infatti appare anche come una sorta di tensione aristotelica verso la Natura. Come in una cosmogonia nella quale esiste un perfetto equilibrio fra i quattro elementi (acqua, aria, terra e fuoco abitano la nave in momenti diversi del film, ma ne costituiscono, di fatto, l’essenza), dentro Human, Space, Time and Human, la creazione si configura infatti come un concetto molto meno assimilabile alla questione teologica di quanto sembri a prima vista.

Ed è infatti un film carico di pessimismo che evidenzia la malvagità dell’uomo e le conseguenze esiziali cui conducono le azioni che esso intraprende. Una visione nerissima che non condanna l’umanità all’estinzione, bensì, come nel contrappasso dell’inferno dantesco, a perpetuare i propri peccati capitali fino alla fine dei tempi – benché la possibilità di una salvazione non venga mai accantonata. E in tutto questo, a ben vedere, il registro espressivo carico, debordante e sopra le righe che utilizza sia a livello estetico che testuale, calcando la mano su gesti estremi come omicidi, stupri e cannibalismo, è del tutto funzionale alla messinscena.

Non è certo semplice aderire, o anche solo accettare di star dentro, al cinema di Kim Ki-duk e certamente di fronte ad alcune ingenuità e soluzioni formali grossolane è possibile anche smarrirsi completamente. Ma è anche un cinema che va sempre parametrato all’ambizione sincera e determinata del suo autore. Uno che cerca ostinatamente la luce anche dentro il più nero degli universi.