Cameracar, giorno, una strada fasciata da due pareti di roccia. Un’auto riporta l’adolescente Havva nel cuore del cuore dell’Anatolia, tra montagne scistose e aguzze, in un villaggio di una manciata di abitazioni, tra mucche, capre e legna da ardere con parsimonia; lì sta la sua casa, dove vivono il padre Sevket, la sorella maggiore Reyhan, il figlio lattante di lei, e il marito Veysel, un capraio ottuso e superstizioso. Si capisce, dopo poco, che il bambino cui la ragazza faceva da au pair presso una facoltosa famiglia della città è morto e che il suo rientro al paese è dovuto a questo. Per una diversa ragione, per una condotta non in linea con il ruolo di tata, ma per la stessa strada, torna al villaggio anche la sorella di mezzo, Nurhan, nervosa e problematica, accompagnata dal suo datore di lavoro, il signor Necati. Non ci vuole molto a capire che Necati è stato già il patron di Reyhan, e che forse c’è qualcosa che entrambi non dicono; non ci vuole molto perché il posto vacante venga proposto alla piccola Havva, pronta a preparare i bagagli per compiere il viaggio a rovescio, verso una nuova casa, nuovi bambini da accudire, eventuali extra da affrontare. A dispetto dei drammi, grandi e piccoli, che l’inverno anatolico porta con sé.
Se il precedente film di Emin Alper, Abluka (Frenzy), che si vide in concorso a Venezia nel 2015, era un racconto distopico voltato, almeno in apparenza a parlare del caos presente (e già su quello si avanzarono non poche riserve), Kiz Kardesler (A Tale of Three Sisters) è un film fuori dal tempo, ma non nel senso buono dell’espressione. Questa storia di sorelle (e di famiglia), è un oggetto quasi ingiudicabile, uscito dall’ormai consueta cordata di lab, pitch e in progress europei; e i segni dei tutori, sul prodotto finito, si vedono tutti. A partire dalla confezione. Costumi e scenografie senza connotazione cronologica, che spingono sul pedale del pittorico e del pittoresco, coadiuvati da una fotografia laccata come non si vedeva dai mid-nineties, e una colonna sonora all’insegna di una pacificazione greco-turca, dei fratelli Giorgos e Nikos Papaiannou, pronta per ECM o etichette simili; e poi, le metafore facili e ricorsive come due viandanti che di volta in volta perturbano i protagonisti, o la scema del villaggio che si prodiga in reiterate, cadenzatissime capriole, o gli scorpioni, prima avvistati in casa e poi filmati in macro, qualora fossero sfuggiti, in una sequenza degna di Microcosmos. Tutti gli ingredienti, insomma per somigliare a qualcosa, senza esserlo davvero, e appagare i sensi di chi si fa bastare la bella confezione. E già ci si immagina il «bella la fotografia» che rimbalza, di bocca in bocca, nei foyer delle sale d’essai.
Ma quando si cerca di pesare la sostanza di questo film imbalsamato, ci si rende conto che si va poco oltre l’illustrazione, a tratti stucchevole, di un racconto d’appendice quasi-ottocentesco, dalla circolarità studiata a priori (la capriola, appunto), e che forse, come dicevamo, questa illustrazione somiglia più alle aspettative dei produttori che non a quelle del regista e sceneggiatore. Il quale però cerca, abbastanza evidentemente, di aggrapparsi agli strascichi del miglior cinema turco contemporaneo. Se nei film di Nure Binge Ceylan, infatti, il fantasma delle atmosfere e di personaggi cechoviani è un elemento positivo e proattivo nella costruzione cinematografica, le tre sorelle di Alper sono solo un’evocazione smaccata del dramma di Cechov (tra l’altro, a ben guardare, il titolo originale si traduce semplicemente con “sorelle”), anche nel loro agognare un altrove, una Città, che non è necessariamente Ankara, ma può essere anche solo il paesone ai piedi della montagna. E c’è forse anche un po’ di Piccole donne, senza però nemmeno il barlume del protofemminismo che c’era nella Alcott. E se Havva vale in turco come Eva, la struttura pesante, rotolante, ciclica, del racconto ideato da Alper, più che evocare un nuovo inizio, sembra solo condannare questa giovane donna allo stesso destino di quelle che l’hanno preceduta.