Una piccola città nel Midwest rurale. Una ragazza scompare. Una comunità sulle sue tracce. Sembrerebbe l’ennesima declinazione di uno stereotipo Knives and Skin, il film di Jennifer Reeder presentato alla Berlinale nella sezione Generation. Ma la regista indipendente americana lo definisce "a neo-feminist thriller", un mystery femminista e dunque tagliato sul contemporaneo. Il racconto segue infatti la parabola di tre ragazze, Afra, April e Joanna, ognuna delle quali si trova, dopo la sparizione di un'amica, impegnata nel proprio personale coming of age in una realtà a ristretta a dominanza maschile.
Nell'incipit in riva al lago, scoppia un violento litigio tra Caroline e un ragazzo che la lascia esanime sulla riva. Il giorno dopo Caroline è scomparsa, la notizia si diffonde e partono le ricerche. L’apertura paga un debito a Twin Peaks seppure non nella dinamica dei fatti – là c’era un omicidio, qui una scomparsa. Caroline, come Laura (lo sottolinea anche la somiglianza tra le due attrici Raven Withley e Sheryl Lee) è una stella del liceo, bionda reginetta di bellezza vestita da majorette, e come là l'evento traumatico che la coinvolge spacca la superficie della comunità, e rivela il doppio in ogni figura, il torbido dietro la facciata. Reeder cita il cinema americano sugli adolescenti, da American Graffiti di Lucas a La vita è un sogno di Linklater: anche queste giovani sono dazed and confused, in continuo divenire come si addice all’età, e per inscenarle l’autrice sceglie un registro visionario fatto di cromatismi fluo e improvvise virate visive ("I like pink", dice una giovane, e mostra il reggiseno rosa). La regista conosce e rielabora l’influenza del videoclip sul cinema contemporaneo per costruire un coming of age con scomparsa, che però non è un dissolvimento: Caroline si muove in sembianze cadaveriche mentre tutti la cercano.
Il racconto si avvita quindi in senso grottesco: una madre "annusa" il ragazzo della figlia per sentire se porta il suo odore; un preside compra biancheria intima da un’alunna ordinando come i piatti di un diner; il coro della scuola, squarcio idilliaco che ricuce l’apparenza, serve alle ragazze per bisbigliare messaggi che leggiamo in sottotitolo. Reeder frequenta stereotipi per sabotarli, e così il caso fa esplodere le difficoltà dell’adolescenza e delle donne: due ragazze nere si scoprono lesbiche e innamorate, i genitori non sono migliori dei figli e le figure istuzionali come docenti e presidi partecipano con le rispettive perversioni. Un teen noir spiazzante, almeno quanto un adolescente che sale sul tetto della scuola e - davanti al temuto suicidio - afferma candidamente: "I like the view". Gli piace la vista, e tenta di guardare lontano, fuori dal confine limitante della piccola città. Nel citazionismo ipertrofico e consapevole, nella sedimentazione di una cultura pop e nelle trovate ricorda, in minore, Under the Silver Lake di David Robert Mitchell. È il discorso di sempre del cinema indie americano: il dolore della crescita, la tentazione di sparire (letterale, per Caroline), la scomparsa come metafora della complessità nella scoperta di sè.