Un incidente d’auto; un ragazzo di 21 anni che muore, forse suicida; una famiglia distrutta dal dolore; una comunità in lutto ma rinsaldata nel proprio tenace isolamento. Irénée-les-Neiges, 215 abitanti nelle pianure sterminate del Quebec in pieno inverno, nessuno morto da anni, come dice il sindaco battagliero e ipocrita, eppure un’emorragia di partenze verso le grandi città. Una città già fantasma mentre è ancora in vita, in cui l’ampiezza dello spazio a disposizione, l’immobilità delle giornate e l’inafferrabilità dell’orizzonte generano un’atmosfera di minaccia, di abbandono e insieme resistenza.
La realtà del mondo filmato da Denis Côté in Répertoire des villes disparues s’impone sullo schermo nella sua gelida evidenza, nascondendo la presenza di qualcosa dato come imperscrutabile eppure visibile a chiunque, spettatore compreso. La presenza, ovviamente della morte, di un terrore bianco e senza forma che fin da subito si scorge nei volti dei personaggi, nei campi innevati e nelle strade giacciate, e che nel corso del film viene via via esplicitato dal ritorno inspiegabile dei morti. Come in Les revenants, con le figure immobili e silenziose dei deceduti che si stagliano spaventose all’orizzonte, senza però che la tensione sfoci mai in terrore o che la minaccia costante porti a una vera soluzione drammatica.
Nella città fantasma di Côté la morte non è un rimosso, ma lo svelamento di una dimensione concreta e altrettanto presente rispetto alla vita. Répertoire des villes disparues esplicita ciò che nel cinema del regista canadese è sempre stato affidato a immagini folgoranti, una su tutte il finale di Vic + Flo ont vu un ours, in cui le due protagoniste restavano letteralmente inchiodate alla terra. Qui succede il contrario, con una delle abitanti di Irénée-les-Neiges che per fuggire ai morti trova rifugio in mezzo al cielo, attaccata a un filo metallico che nessuno può vedere, ma a essere ribadita è proprio la materialità del mondo rappresentato, la sostanza concreta dell’inesplicabile.
Il film gioca chiaramente con il genere dell’orrore (come del resto anche lo stesso Vic + Flo, che era un noir) o con una sua possibile lettura in chiave politica, con la tranquillità del mondo di provincia minacciata dall’incursione dell’altro e in realtà minata dalle proprie sicurezze: ma Côté resta sempre e volutamente in superficie.
Suggerisce l’incombere di una dimensione misteriosa ma la disinnesca senza mai scatenare l’azione (o svelando i propri stessi trucchi, a cominciare da quello della donna sospesa nel vuoto, rivelato da uno dei trailer del film…); genera una continua tensione fra campo e fuoricampo, ma non porta mai a un vero scontro. Morti e vivi rimangono distanti, più che separati, come se il mondo rappresentato, e di rimando il film stesso, fossero una terra neutra, gelida e inerme, dove ogni conflitto viene abbandonato.
Répertoire des villes disparues non diventa mai ciò che potrebbe essere (un horror, un dramma familiare, il racconto corale di una comunità), preferendo restare sospeso fra la promessa e l’epifania. La frustrazione è parte stessa dell’esperienza della visione, con tutti i rischi di delusione o indifferenza che un tale approccio comporta.