Il cinema di Philippe Garrel è sempre uguale a sé stesso, è un mondo chiuso e simbolico come quello di una fiaba o un sogno. A mancare, nei suoi film, è il respiro delle città, il passare del tempo, il movimento dello spazio che circonda i personaggi.
In Le sel des larmes, presentato in concorso alla Berlinale, tra la metropoli Parigi e la provincia del nord, lungo la Marna, non c’è quasi differenza, le vie sono vuote, gli ambienti spogli e indefiniti. Il bianco e nero di Renato Berta trasfigura la realtà e la trasporta in universo monocorde, in cui anche le musiche dolci di Jean-Louis Aubert e la voce narrante contribuiscono a isolare i personaggi nella loro solitudine.
Le sel des larmes è ancora un film sulla figura del padre, come in altri modi il precedente L’amant d’un jour. Il protagonista Luc, falegname e aspirante ebanista, ha relazioni con tre donne, ama in maniera superficiale ed è riamato con ben altra forza, e nel corso del racconto mantiene un rapporto saldo solamente con il padre, l’unica persona per la quale spende delle lacrime. Come altri personaggi maschili di Garrel, Luc è un mediocre: abbandona, tradisce, mente, si adatta passivamente a un triangolo amoroso che in realtà non vuole. Ogni nuovo amore lo coinvolge in maniera distratta, ogni tentativo di staccarsi dalle origini – trasferendosi a Parigi prima per tentare l’esame per la prestigiosa École Boulle per ebanisti e poi per frequentare la scuola – lo riporta inevitabilmente verso il padre, che lo accudisce, lo incalza, lo sprona, ma finisce anch’egli per bussare alla porta del figlio. Al fianco del padre Luc guarda il cielo stellato e scorge le costellazioni; con Geneviève, una delle tre donne che lo amano, non alza nemmeno gli occhi per individuare l’Orsa maggiore, quasi nell’amore vivesse inconsapevolmente una ribellione indesiderata.
Nel mondo concluso di Garrel per gli uomini l’amore è un tradimento. O forse un inevitabile fallimento. Luc fa e disfa, corteggia e abbandona, ritrova come nelle tappe di un sogno gli elementi del racconto che si lascia dietro di sé (una delle sue donne abortisce, l’altra resta incinta di un altro uomo), e nonostante il suo lavoro da artigiano non costruisce nulla. A parte una cosa: una cassa da morto. Insieme con il padre…
Garrel è sempre stato ironico e poco indulgente verso i suoi personaggi: in La frontière de l’aube si prendeva gioco del loro maledettismo intellettuale, in L’ombre des femmes non lasciava speranza alla loro povertà da nullafacenti. In Le sel des larmes, ancora, osserva la codardia di Luc in modo distaccato, con la voce narrante che anticipa o commenta le azioni nascondendo dietro i toni malinconici una tragica assenza d’empatia.
Garrel non lascia spazio al suo personaggio, lo ingabbia fisicamente e idealmente. Oltre il cielo che guarda col padre, per lui non c’è nulla, né Dio, né aldilà, né l’amore delle donne. Il padre ha generato una vita, e inconsapevolmente l’ha soffocata.
Dietro la finezza estatica ed estenuata delle sue immagini, Le sel des larmes è così una sconsolata riflessione sulla libertà individuale e sull’inutilità dell’amore. La bellezza, che pure nel film è presente (in una donna che si trucca o si lava, in una danza coreografata e poi scatenata), genera momenti effimeri, a volte rappresentati in maniera straniante dall’assenza di sincrono fra immagini, suono e commento sonoro.
Se questo è un cinema sempre uguale a sé stesso, fuori dal mondo e dal nostro tempo, è perché è votato a una visione sconsolata dei rapporti umani e della loro incapacità di evolvere. Secco, immediato, mai indulgente.