Bastano pochi minuti di Les Irradiés, perché nella mente spunti l’etichetta del film-saggio. Una forma che, per antonomasia, rimanda a sua volta a Chris Marker. Del resto il film di Rithy Panh, altro non è che questo: una lunga, efficace e dolorosa dissertazione sul male, sulla morte, sulla disumanità e, di conseguenza, sui suoi opposti, la vita e l’umanità.
Consapevole – e lo dichiara manifestamente con un botta e risposta tra voci fuori campo – della potenza, del potere unico dell’immagine, il regista cambogiano porta in scena alcune delle massime domande che l’uomo possa porsi, gli interrogativi filosofici che da sempre attraversano il mondo: cos’è il male? Cos’è la morte? Cosa significa essere umani? E lo fa senza sconto alcuno nei confronti della sensibilità personale dello spettatore.
Niente è celato e celabile, in Les Irradiés. Le immagini sono dolorose, bruciano gli occhi, fanno piangere per un senso profondo di colpa, errore, ferita aperta e mai richiudibile. Devono farlo. Proprio come un tempo fu doloroso e bruciò quel “male irradiato” che ha attraversato la nostra storia, il Novecento, dalle guerre, alle bombe atomiche, alla Shoah, agli eccidi in Ruanda e a Sarajevo.
Un male “irradiato”, espanso sotto forma di raggio a partire da un punto centrale, come una bomba atomica, col suo raggio distruttivo ampio chilometri. Quell’esplosione nucleare che torna, come un mantra, rossa in un flusso di riprese in bianco e nero, e che, ancora, rimanda per associazione a Marker, a Sans Soleil. Fa proprie le basi più semplici del cinema, Panh, quelle che ha teorizzato ancora Ejzenstein, quelle del montaggio connotativo: una catasta di bambole abbandonate, una pila di corpi senza vita. Conosce i meccanismi, e li impiega per una dissertazione ai limiti del filosofico, del platonico: la morte è sempre prima un’idea? La morte nasce sempre prima su carta, in un laboratorio? Il male si moltiplica; i volti, i corpi, i nomi, gli abiti si triplicano grazie a uno split screen che divide in tre lo schermo, per procedere a volte su linee differenti, a volte come un’eco l’una dell’altra.
Ma il male “irradiato”, lo è anche – per una ormai chiara propensione del film – in senso lato, metaforico. Gli irradiati sono “illuminati”, sono coloro che, come il regista sopravvissuto al genocidio cambogiano degli anni ’70, come le due voci fuori campo, come le figure asiatiche dipinte di bianco che interrompono il flusso documentaristico con le loro danze macabre, come lo stesso spettatore (?), quel male lo hanno più o meno conosciuto – subito o solo visto su uno schermo – e ne faranno tesoro. Interrogarsi sul passato, sul proprio vissuto, sulla storia, per non dimenticare una piaga di per sé indimenticabile, ma anche per trovare una nuova forza.
Perché com’è ovvio, ogni racconto di morte, diventa necessariamente, a un certo punto, un racconto di vita. Perché ciò che è stato fatto, checché se ne dica, non era necessario, non era profetico, non conduceva a nulla, ma deve essere oggi base per cementare un futuro nuovo. Perché accanto al “male irradiato”, ci saranno sempre ancora i fiori, l’equilibrio instabile, l’innocenza nuova.