Al Märkisches Museum plastici, modelli bidimensionali, vedute antiche e moderne raccontano la storia della città di Berlino, le sue fasi di espansione, le distruzioni, le ricostruzioni; nell’edificio di fronte, ha la propria sede il Dipartimento per lo sviluppo urbano, che espone altri tasselli importanti di questo discorso. Undine (Paula Beer), che è una storica, ci lavora come freelance, accompagnando gruppi di visitatori, ai quali spiega anche il susseguirsi di pareri e provvedimenti urbanistici presi nel XIX secolo e, soprattutto, a seguito delle grosse cesure novecentesche, la distruzione durante la Seconda Guerra Mondiale, la divisione tra Est e Ovest e la riunificazione.
L’architettura della città, la logica dei vuoti che rende unica la capitale tedesca come la conosciamo oggi, vede nella riedificazione dello Stadtschloss, il gigantesco castello urbano, che si vede restituire le forme e l’estensione che aveva in età guglielmina per accogliere il nuovo Humboldtforum, un punto nevralgico: riedificare oggi là dove la DDR aveva mantenuto un vuoto simbolicamente forte, vissuto però da Ovest come una lacerazione, è in qualche misura la negazione del progresso, perlomeno di un progresso letto in chiave lineare.
Il nuovo film di Christian Petzold non è certo un documentario sulla città di Berlino, né è didascalico come potrebbe sembrare da questo preambolo, ma il paradigma della distruzione e della ricostruzione, di nuovi pieni che vanno a colmare i vuoti lasciati dal tempo, ritorna in tutta la struttura del film, si rispecchia in tutta la sua architettura, nel suo voler essere una fiaba contemporanea che attinge a un mito antico riscritto in età romantica. Un mito che è legato anche alla fondazione della città, a tutto quello che non si sa, o a quello che si crede di sapere. Berlino, come Parigi, nasce lungo una serie di anse del fiume Spree, sulla bonifica di una zona acquitrinosa, che l’ha lasciata costellata di laghi; lo ricorda la radice slava del suo nome (offuscata ormai dall’abitudine a vedere un orso, Bär, nel suo stemma) e nelle leggende di tutta Europa, le naiadi, le nereidi e le ondine, appunto, ci sguazzano sinuose nelle acque lente o stagnanti. Non è d'altronde la prima volta che Petzold lavora sulle figure del mito, basti pensare a Phoenix (Il segreto del suo volto) e il mito della fenice, tantomeno, su questo si può scommettere, sarà questa l’ultima volta in cui si confronta con le strutture del melodramma.
Undine viene lasciata da Johannes (“si chiamano tutti Hannes”, diceva la Undine di un famoso monologo della Bachmann), e, senza scherzarci troppo sopra, lei lo avverte, calma, «se lo fai davvero, sai che dovrò ucciderti». La protagonista si presenta così, sul crinale tra l’iperbole e la possibilità che accada veramente quanto minacciato, lasciando lo spettatore con il dubbio che abbia preso eccessivamente alla lettera l’eredità che le arriva con il nome. D’altra parte, se nell’architettura contemporanea form follows function, verrebbe da dire che nell’onomastica dei personaggi (e in particolare di quelli di Petzold) names precede form. Se Undine è la ninfa del mito, o ne è perlomeno una parafrasi, l’emotività prosciugata di questa prima scena del film si spiega con il fatto che la giovane sarebbe priva di anima. È l’incontro immediatamente successivo, con il palombaro Christoph (Franz Rogowski) a ri-animarla (e il tema della rianimazione torna in più occasioni), rendendola però mortale ed esponendola alle lacerazioni del sentimento. Un vuoto che viene sostituito, non senza lasciare cicatrici: l'amore, sembra dire Petzold, non si sottrae al paradigma dell'avvicendamento, della stratificazione architettonica.
Undine è dunque anche un mélo, rivisitato, asciugato, non per questo schematico, e il mélos, la musica, si adatta di conseguenza. Avrebbe avuto tanti spunti musicali, soprattutto ottocenteschi, legati alla figura della bella ninfa fluviale che uccide il compagno traditore, e invece, fin dall’incipit, impostato come un congedo tra amanti quasi da Nouvelle Vague, Petzold fissa la temperatura emotiva con il tema musicale che diventerà ricorrente: l’Adagio in re minore, BWV 974, dal celeberrimo concerto per oboe di Alessandro Marcello, adattato per il pianoforte da Johann Sebastian Bach: asciuttezza timbrica e tonalità melodrammatica per eccellenza. L’unico altro brano è appena canticchiato o orecchiato attraverso degli auricolari e sta all’altro polo della sfera musicale: Stayin’ Alive dei Bee Gees, va al ritmo del battito del cuore, come lo insegnano nei corsi di primo soccorso, e come lo ha imparato Christoph, ed è qualcosa che ha a che vedere più con i miti del pop. D’altra parte, il cinema, che è un fatto non solo metaforicamente architettonico, è proprio il mito che cerca una nuova forma, o meglio, i film sono forme nuove per miti antichi. Sembra questo un pensiero implicito nel cinema di Petzold, che non nasconde, per esempio, come l’apparato per le immersioni di Christoph sia mutuato dall’immaginario di Jules Verne, già filtrato attraverso lo sguardo di Richard Fleischer.
Così, nell’asciuttezza, nello sviluppo drammaturgico a suo modo semplice, i sensi e i segni del mito, delle storie, della Storia si stratificano, e si ha in fondo l’impressione di essere stati travolti dal film come dall’acqua che investe Undine e Christoph al loro primo incontro, e la certezza di non aver colto davvero tutto; una certezza che non impedisce di riconoscerne la grandezza, come l’acqua di un lago trattenuta da una diga non impedisce di immaginare la città che dalla forma di quell’acqua è custodita. Lì sotto, Undine ci ha già vissuto.