Non ingannino la confezione kitsch, gli eccessi grotteschi o il titolo scherzoso. Quello di Radu Jude è un film molto complesso. E beninteso non stia scritto da nessuna parte che non si possano fare film complessi pur giocando con la messinscena, è possibile che questo crei talvolta un po’ di confusione tanto negli spettatori quanto nei critici.
Del resto un film che si apre con le immagini di un video pornografico amatoriale – ricostruito ma comunque estremamente spinto – in cui si vedono maschere di carnevale e parrucche color fucsia e si chiude con una specie di parodia cinecomic a suon di fulmini in cgi e costumacci da Wonder Woman, potrebbe faticare a essere preso sul serio. E invece – sebbene poi nel film ci sia molto altro – basta anche solo questa libertà linguistica affinché si avverta la forza espressiva del cinema di Jude.
La storia è quella di Emi, una professoressa di liceo, il cui filmino intimo e privato fatto in camera da letto insieme al marito finisce accidentalmente su PornHub e arriva fino agli smartphone di studenti e genitori della scuola. Il film – diviso in tre capitoli e altrettanti possibili finali – racconta la giornata in cui la donna dovrà incontrare gli organi scolastici e i genitori degli alunni chiamati a votare su un suo possibile licenziamento.
Il video porno, benché mostrato a più riprese e il più delle volte diegeticamente durante il film, è soltanto un pretesto, l’intento del regista è quello di innestare le proprie riflessioni a partire dall’individuazione del senso del termine oscenità: «che cos’è l’osceno? Come lo definiamo?» si chiede Jude. Ma come per molto del cinema romeno contemporaneo, i ragionamenti intorno a un tema banale, quotidiano o ispirato a fatti di cronaca e a situazioni consuete (nella fattispecie una discussione fra amici durante una cena, afferma il regista), diventa l’occasione per scavare ben oltre la superficie e spingere i concetti al limite del paradossale.
Ed è proprio sul crinale del paradosso a muoversi il racconto. L’ultimo capitolo – ove le accuse e i tentativi di difesa nei confronti di Emi si confondono e smarriscono in divagazioni e goffi tentativi di argomentazione – sembra la messa in forma di una chat di commenti da social network privata del proprio stato virtuale. Con un’interazione fatta di considerazioni irrilevanti ma fortemente polarizzata su posizioni inconciliabili e straniante ancor prima che farsesca. Ma sono soprattutto i primi due capitoli a definire questo straniamento e rendere la complessità linguistica di cui si diceva.
Lo “Short Dictionary of Anecdotes, Signs, and Wonders” che compone la seconda parte del film, una sorta di glossario – in rigoroso ordine alfabetico – di parole comuni cui sono associate immagini a volte pertinenti e volutamente didascaliche altre volte intenzionalmente evocative, è una divagazione tutt’altro che insignificante. Il regista con una tecnica di montaggio vecchia quanto il cinema manifesta qulla quotidiana oscenità che, a differenza di quella sfacciata di un video pornografico, fatichiamo a vedere o siamo abituati a ignorare. Restituendo al cinema quel ruolo rivelatore cui rimanda il mito di Medusa citato nel film (lo schermo, come lo scudo di Perseo, ci permette di sostenere la vista di una realtà che se non fosse riflessa, ci travolgerebbe).
Ma, risalendo all’indietro, aiuta a comprendere ancora meglio il primo capitolo. Quello in cui Emi vaga per la Bucarest di oggi, quella del 2020 sommersa come il resto del mondo dalla pandemia, in attesa di recarsi all’incontro a scuola. Un momento narrativamente inconsistente ma cinematograficamente sbalorditivo per la capacità del regista di costruire un universo di senso attraverso, anche qui, gli strumenti più elementari del linguaggio cinematografico: lievi panoramiche a seguire la protagonista per le strade, movimenti di macchina indipendenti che colgono e fissano piccoli dettagli. Con personaggi e luoghi immersi in una quotidianità asfissiante in cui ognuno, con la sua mascherina indosso, agisce in una dimensione di indifferenza. Mentre è lo spazio urbano stratificato, espressivo, dialettico a renderci partecipi della profonda complessità dell’immagine e dello sguardo del regista sul contemporaneo. Mentre l’impressione che si genera è quella di osservare il nostro stesso tempo sotto una prospettiva diversa, quasi per la prima volta.
Ed è forse così, come abbiamo provato a fare, che andrebbe letto Bad Luck Banging or Loony Porn: al contrario. Partendo dalla fine e tornando indietro fino alle prime immagini, quelle pornografiche, con cui il film si apre. Perché è un po’ come un percorso disseminato di tracce, simboli e strade da interpretare, ripercorrere e annotarsi. E che proprio come il presente che racconta, da qualsiasi lato lo si guardi, non si riesce mai a capire del tutto.