Sette episodi, due (massimo tre) personaggi per quadro, storie di vita, piccole, piccolissime ma che celano enormi tensioni. Enormi tragedie, drammi esistenziali, psicologici, umani, relazionali tutti raccontati da un punto di vista ultra ravvicinato con la camera a mano a soffocare i personaggi, a schiaffeggiare gli attori. Senza stacchi, come se dal dramma non si potesse andare in pausa, come se i personaggi stessi ne fossero travolti e braccati e con loro lo spettatore che resta costretto alla prossimità dallo sguardo del regista che non lascia alternative. Come se guardare cosi da vicino fosse l’unico modo di entrare veramente in relazione con queste piccole storie e con i loro protagonisti, come se guardare cosi da vicino fosse essere li con loro. Non c’entra nulla Cassavetes però (se non in superficie). in questi sette momenti messi in scena da Fliegauf regnano una claustrofobia molto costruita, un grande lavoro di controllo e certo un'assoluta padronanza della tecnica da parte degli attori chiamati a performance che si spingono in più di un caso verso il pezzo di bravura ma risulta difficile richiamare l'indomabile nevrosi del regista newyorkese.
In quasi ogni episodio c’è qualcuno che sembra denunciare l’origine della crisi dicendo che il fuoco sta su un problema; poi la temperatura sale e si scopre (pur senza abbandonare mai quella prossimità senza scampo) che il dramma non sta in quello che poteva sembrare di per se tragico ma che c’è di più, c’è altro dietro. E mentre la tensione cresce, i personaggi - quasi alle prese ogni volta con un monologo declamato tutto d’un fiato - prendono la parola, invadono alternativamente l’inquadratura con i loro volti posseduti dalla sofferenza e partono con il loro momento di sfogo. Parlano quasi sempre da soli infatti questi uomini e donne in crisi raccontati da Fliegauf, anche quando dialogano sembrano per lo più interessati a dirigere la loro rabbia, il loro dolore o la loro tristezza verso qualcuno o qualcosa senza davvero cercare altro. Poi si esce in qualche modo dalla stanza, dalla casa e dalla vita di questi per scivolare, accompagnati dal respiro (sei in tutto) della macchina da presa, in quella di altri. Altro dramma, altra tragedia, stesso modo di raccontarlo, senza incertezza, senza allontanamento, senza contesto né spazio (o quasi). La parola invade lo schermo insieme ai volti degli attori.
Quasi vent’anni dopo Forest (presentato nel 2003 sempre alla Berlinale ma al Forum), il regista ungherese con questo film - come evidente fin dal titolo Forest – I See You Everywhere - gira la sua ideale prosecuzione. E sta forse un po’ qui il suo limite perché Fliegauf, che sicuramente sa quel che fa e che persegue un’idea di cinema d'autore in cui lo sguardo esplicito è tutto, questa volta, sembra quasi sceglierne la riproposizione come via di fuga (forse anche dalle difficoltà produttive della pandemia?) senza aggiungere nulla di sostanziale. Una via di fuga che conserva il suo fascino, che ammalia per la capacità di creare tensione e di starci attaccato ma che, in fondo, non fa che riportalo esattamente dove era il suo cinema vent’anni fa.