Concorso

Dreams, (Drømmer) di Dag Johan Haugerud

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Le storie che ci raccontiamo da adolescenti, le versioni di noi che scegliamo di esprimere, sono quelle che forgiano, nel bene e nel male, quello che diventiamo crescendo. La differenza la fa la modalità in cui le processiamo. Forse per questo in Dreams (Drømmer) di Dag Johan Haugerud la protagonista Johanne, una diciassettenne norvegese come tante (anche se la sua famiglia ha una cabina nei boschi, e non tutti se la possono permettere, un modo sintetico per dire che sono borghesi), racconta in voce over la sua prima esperienza con l’amore, o con quello che più somiglia al concetto, la manifestazione dirompente, psicologica e fisica, di qualcosa di cui aveva fino a quel momento letto solo in un romanzo (L’ésprit de famille, di Janine Boissard): una devastante cotta per l’insegnante di francese, Johanna, che è anche artista, filatrice, tessitrice e incomparabile esecutrice di lavori a maglia, che indossa con rara grazia. Il racconto di quell’innamoramento, e dei patemi, dei sussulti, degli slanci della ragazza, che di volta in volta vediamo manifestarsi sul suo corpo e sul volto, si ferma sulla soglia dell’appartamento della docente, che apre a una Johanne in tutti gli stati, incapace di gestire l’emozione. Lì la voce over precisa che è passato più di un anno da quel momento, e per molti versi è giusto che sia finita come è finita, essendo stata un’esperienza dolorosa, anche se meravigliosa. “So che non la dimenticherò mai, ma, sapete, le memorie cambiano. Ho pensato che se avessi trovato le esatte parole per descrivere come era esattamente, avrei potuto catturarne l’essenza, renderla solida, qualcosa che posso portare nel palmo della mano, per sempre”. Dreams chiude la trilogia di Haugerud aperta lo scorso anno da Sex, presentato e premiato sempre alla Berlinale nella sezione Panorama, continuata con Love, in concorso a Venezia. Ma fin dai credits, con la parola Drømmer che rimane al centro dopo che gli altri due titoli sono andati in dissolvenza, è chiaro che questa storia di formazione è il pannello centrale di questa triplice indagine sul desiderio. I sogni del titolo, l’anelito indistinto che Johanne riconosce leggendo il romanzo della Boissard e mette progressivamente a fuoco con la propria esperienza, sono quintessenzialmente desiderio, raccontato in quell’età acerba in cui proprio perché assoluto e inafferrabile lascia i segni più duraturi. Per questo l’aspetto più interessante del film di Haugerud, che altrimenti sarebbe potuto essere un banale crush-drama, è stratificazione dei livelli di racconto, e la complicazione architettonica che ne consegue, un palinsesto di atti narrativi che hanno come necessità primaria quella di preservare la freschezza di quel momento.

Il racconto in voce over riferisce la genesi del resoconto scritto, 95 pagine che la ragazza sente la necessità di condividere con la nonna, una poetessa un po’ fricchettona, perché è di vedute più aperte, e poi, si sa, la complicità salta una generazione. “È l’inizio della fine… ma della fine di cosa?”. La nonna legge, non senza una punta di invidia verso la potenza travolgente del primo amore, e presa dalla qualità letteraria, condivide con la madre di Johanne, sua figlia; ovviamente quest’ultima ha un altro approccio alla materia, lo scenario dell’eventuale abuso da parte della docente non è affatto scongiurato. C’è tutta la storia in quelle pagine? Non ci saranno rerticenze, omissioni, passaggi addomesticati? Quanto è davvero frutto dell’esperienza diretta? Non è un caso se in questo commentare e speculare sul testo prodotto dalla ragazza, che poi verrà effettivamente pubblicato, proprio grazie alla nonna, ci si dimentichi che di quel testo lo spettatore non conosce con certezza una sola parola: lo recepisce soprattutto attraverso i compendi di nonna e madre, contrappuntati costantemente da quello che la voce over pensa, a posteriori;  si arriva a momenti in cui impercettibilmente la consapevolezza della voce di Johanne ormai diciannovenne si sovrascrive alle immagini della madre, turbata, che legge il dattiloscritto appena stampato, dando l’illusione che si tratti di quello. Senza poi contare le scene in cui la stessa Johanne diciassettenne racconta direttamente dettagli della storia alla madre, che sembra ulteriormente rassicurata dal non coincidere con l’idea che il testo scritto dava. Questo moltiplicarsi e accavallarsi di narrazioni e rispecchiamenti ha forse un correlativo visivo nelle tante scale salite e discese da Johanne, che culmina nella visione quasi allucinata delle rampe e dei ballatoi del complesso in cui abita la professoressa, una sorta di labirinto in stile Escher, tutto luci, gradini e ringhiere, nel cuore della city di Oslo. L’altra scala, quella lunghissima, metallica, che attraversa un parco, dove la nonna va a fare hiking con la figlia e con la sua editrice, è solo in apparenza un luogo più lineare, dando invece spazio a una reinterpretazione laica del sogno di Giacobbe, e al tempo stesso al binomio desiderio/rimpianto che la lettura del testo di Johanne ha suscitato in lei, un’immagine onirica dove una folla di persone si arrampica nella notte, una processione infuocata di persone. Un’immagine del tendere, del divenire, in contrasto con l’illusione di poter rendere plastica e duratura la memoria complessa e inafferrabile di un’esperienza, che, per quanto travolgente, oltre ad avere sempre un controcanto nella versione dell’altra persona, si trasforma e contraddice già nelle parole della narratrice stessa.
Non come i gesti del lavoro a maglia, il cui apprendimento costa una fatica quasi dolorosa, ma proprio per questo si imprimono nella memoria muscolare del corpo più che nella coscienza.