Che Neruda non voglia essere un’agiografia, lo si capisce fin dalla prima scena. Il poeta, ospite a una qualche serata di gala, entra in bagno e – mentre piscia – discute con alcuni politici che gli danno del traditore. Li manda a quel paese e con grande serenità esce dalla toilette. È l’inizio della fine.
Pablo Neruda alla fine degli anni Quaranta è senatore della Repubblica cilena sotto il governo di Gabriel González Videla (qui interpretato da Alfredo Castro) di cui è fervente sostenitore. La repentina svolta autoritaria della politica del Presidente porta però il poeta – esponente di spicco del partito comunista – a diventare uno dei più accaniti oppositori del governo finendo per convincere Videla a ordinarne l’arresto.
Larraín parte da qui per mostrare la fine dell’utopia politica di Neruda, poeta civile, intellettuale, politico appassionato ma soprattutto comunista viscerale, avversario scomodo della destra cilena: prima latitante e poi esiliato. Parte da qui perché il film, che è tutt’altro che un biopic, non racconta la vita, non la poesia e nemmeno l’ideale politico di Neruda. Ma, ancora una volta, usa il personaggio principale come un mezzo. Un mezzo per parlare della Storia cilena e del suo rapporto incestuoso con il potere, con il dispotismo e la dittatura. Con la differenza che qui, attraverso la figura di Neruda, il regista individua l’arte come materia per approcciarsi al racconto, riuscendo a costruire un film dove la finzione e la realtà si mischiano a tal punto da non consentire alcun punto di riferimento allo spettatore.
Nella seconda parte, quando il poeta inizia la sua fuga e il film diventa (probabilmente) quello che Larraín davvero vuole che sia, l’astrazione si compie in maniera totale. Neruda e Peluchonneau, il poliziotto che gli dà la caccia (un Gael García Bernal strepitoso), si rincorrono per tutto il Cile dialogando a distanza e costruendo un rapporto che va non soltanto oltre l’impianto biografico e oltre il realismo, ma anche oltre qualsiasi possibilità di raccontare la Storia secondo fatti ordinati o come processo uniforme.
Nel rapporto fra questi due uomini intravediamo la storia del Cile, ma anche la storia di ogni paese che cerca la strada della democrazia passando attraverso la dittatura. Se il sogno politico di Neruda è poco più di un’illusione – «se i contadini entrassero nei palazzi del potere come vuoi tu, ci toccherebbe varare leggi piene di errori ortografici», gli dice un politico conservatore – allora vale la pena che a essere fatto di illusioni sia anche il racconto. L’arte tenta di dare forma alla vita. Peluchonneau (voce narrante del film), che credeva di esistere per annientare Neruda, capisce di essere un personaggio secondario e di esistere solo perché esiste Neruda stesso. Ma questo non gli basta e alla fine – quando Larraín tramuta il film in un western, con i personaggi che si inseguono a cavallo fra le valli andine coperte di neve – chiede idealmente al poeta di riconoscergli un’identità, di dire il suo nome, di rendere la sua esistenza degna di memoria.
Ed è questa la chiave del film. Pur avendo al centro un poeta, Neruda non è un film che cerca la poesia (intesa come modalità di racconto, di stile di messa in scena), perché come Larraín sa molto bene il cinema è molto di più un’arte della prosa che della poesia. E allora il regista preferisce farci capire come ogni tentativo di costruire un’opera d’arte (che sia una poesia, un racconto, un film) passi attraverso una narrazione. Quando nel finale Neruda, in salvo a Parigi, nomina Peluchonneau per la prima volta, lo sta realmente portando in vita.
Il gesto mitopoietico dell’edificazione di una memoria attraverso il racconto (la pronuncia del nome) testimonia come ogni fatto storico sia sempre soggetto a mistificazione, di come la sua diffusione passi attraverso il filtro di una narrazione. Ma anche di come sia la parola (la poesia) a dare un nome alle cose e a tramandarle. E che – come suggerisce lo splendido finale del film – può recitare insieme un canto libertà e i “versi più tristi” del mondo.