Non sappiamo di preciso perché per il suo primo documentario Ethan Coen (che dei due fratelli è quello che di solito non firma la regia) abbia scelto Jerry Lee Lewis. E forse non c’è nemmeno un particolare motivo. Tuttavia a ben pensarci non c’è personaggio più coeniano, nel mondo reale, di Jerry Lee Lewis. Nato a Ferriday, Louisiana, nel 1935 Lewis ha attraversato quasi settant’anni di storia americana e – come puntualizza il film – dopo essere sopravvissuto a due mogli (delle sette che ha avuto), tre figli, praticamente tutti i colleghi musicisti della sua generazione, annosi problemi di alcol e droga, un’ulcera perforata e un infarto… nel 2020, a 85 anni, è tornato a esibirsi e al pianoforte dopo aver praticamente dovuto reimparare a suonarlo. Più che un veterano un vero e proprio sopravvissuto.
Ed è proprio questa eccezionalità che il film di Coen cerca di far emergere. Con filmati d’archivio e nient’altro. Nessuna testimonianza o contributo che non siano estrapolati da servizi televisivi, interviste e esibizioni raccolte fra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta. A venir fuori è l’immagine di un artista strepitoso, capace di vendere milioni di dischi ancora teenager, guadagnare somme da capogiro e volare costantemente in testa alle classifiche di tutti i generi musicali – come lui stesso tiene a precisare – dal rock and roll, al pop, al country e fino al R&B. Ma anche di un uomo attraversato da un insanabile male di vivere, incline all’eccesso e alla dissolutezza. Capace di gesti controversi e riprovevoli come il matrimonio con la cugina tredicenne che creò uno scandalo mondiale, il quasi omicidio del proprio bassista cui sparò all’addome per scherzo (o almeno così si racconta), il mai chiarito ruolo nella morte per overdose della quinta moglie Shawn Stephens o il romanzatissimo e leggendario tentativo di assassinare Elvis (ma qui è quasi certo si trattasse di uno scherzo).
Soprannominato non a caso “The Killer” Lewis riversava il proprio lato selvaggio e anticonformista nei brani che lo hanno reso celebre – da Great Balls of Fire a Whole Lotta Shakin’ Goin’ – e soprattutto nelle travolgenti esibizioni live. Ancora più di Elvis infatti si deve a Lewis l’attitudine alla stravaganza e all’eccesso durante i concerti dal vivo che diventeranno un marchio di fabbrica del rock negli anni successivi a quelli in cui lui, come un indemoniato, si alzava in piedi lanciando la giacca, calciando lo sgabello o salendo sul pianoforte saltellando e ballando freneticamente. Tutte cose queste che oltre alla strepitosa tecnica esecutiva, la presenza scenica e l’aura da ribelle, l’hanno fatto diventare uno dei re indiscussi del Rock and Roll.
E il documentario questo lo mostra senza tematizzare, storicizzare o ordinare nulla, ma saltando da una situazione, un’epoca e un’intervista all’altra lasciando da parte giudizi, considerazioni o glosse sulla vita e la carriera del musicista. Semmai, come si diceva, Coen mette insieme tanti piccoli pezzi per costruire il ritratto di un’autodistruzione mancata, lasciando il sospetto che se c’è qualcosa che non va nella vita di uno come Jerry Lee Lewis è il fatto di essere ancora fra noi. Come un rapporto di minoranza della storia del rock o come il residuato di una generazione che sembra appartenere a un passato lontanissimo e a un’epoca nodale della storia della musica. Già celebrata, mitizzata e consegnata alla memoria, ai musei e alle hall of fame di ogni tempo e luogo eppure forse ancora non del tutto compresa e, proprio come il protagonista della storia, mai del tutto risolta.