Cannes, 1987. Nella sezione Un Certain Regard viene presentato Hôtel de France, di Patrice Chéreau, un adattamento del Platonov di Chechov, sorretto dalla sfida di proporre moltissimi volti giovani, «volti nuovi, che io credo saranno gli attori di domani». A dispetto della ricezione festivaliera del film, Chéreau non andava molto lontano nella sua previsione. Lì in mezzo, tra i tanti «attori di domani», che provenivano tutti dalla stessa esperienza didattica, c’era Valeria Bruni Tedeschi, che a distanza di 35 anni da quel film vuole rievocare, a modo suo, quel momento fondativo. E nel farlo sembra voler smentire il proclama di Paul Nizan, quell’ «avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita». Prova a dirci che, malgrado tutto, quella è stata l’età più bella della sua vita, che la prospettiva in cui si mettono le cose, gli accidenti della vita, anche quelli più tragici, quelli di un decennio che ha tirato bruscamente il freno alla gioventù di tutto il mondo, dona loro una bellezza unica, quella bellezza che quasi mai percepiamo mentre le cose ci succedono.
Ecco, la prospettiva: innanzitutto, per forza di cose Bruni Tedeschi rinuncia a essere in scena fisicamente (se non con una parrucca scura per un brevissimo istante), ma affida alla giovane, biondissima, un po’ impacciata, Nadia Tereszkiewicz il proprio alter ego, Stella: un riferimento a Tennessee Williams teneramente ingenuo come gli occhi e il corpo che se lo portano addosso, che trova conferma tragica in Étienne, a suo modo brandesco, interpretato da Sofiane Bennacer.
È la metà degli anni ’80, e il Théâtre des Amandiers, nato e sviluppatosi parallelamente all’Università che ha sede a Nanterre, appena fuori Parigi, è diretto da alcuni anni da Chéreau, che prima di essere uno stimato cineasta è astro del teatro francese, che ha lavorato anche al Piccolo e alla Scala a Milano e poi ha messo in scena il Ring a Bayreuth, spostandolo tra la borghesia del XIX secolo, quando ancora non era diventato una moda abusata; Chéreau che nel 1983 è stato in concorso a Cannes con L’homme blessé; quello stesso anno, al teatro viene annessa anche una scuola, diretta da Pierre Romans, amico e sodale del Maestro, con l’idea di formare giovani attori e produrrà gli spettacoli delle due sale. Stella, come altre decine di giovani sulla ventina, si presenta all’audizione per essere ammessa. Se in altre occasioni i provini per accedere a una scuola di teatro, musica o arti vengono tematizzati fino a diventare in pratica un genere narrativo a sé – da Fame ai talent più famosi e beceri –, la Bruni Tedeschi risolve in maniera veloce ma brillante quella fase, che diventa l’occasione per presentare i personaggi, le loro peculiarità, i loro vezzi, la loro leggerezza. Dietro a nomi di fantasia come quello di Stella, si riconoscono, a volte per dettagli precisi, a volte con tratti che si confondono e si accavallano, Eva Ionesco, Vincent Perez, Bruno Todeschini, Noémie Lvovsky (che firma la sceneggiatura insieme alla regista e a Agnès de Sacy) ma anche Agnès Jaoui (che pare non condivida il bel ricordo dell’esperienza di Nanterre) e tanti altri. Bruni Tedeschi decide di sottrarli alle loro identità biografiche, ma facendo questo non li indebolisce, anzi il film si preoccupa proprio di rendere i loro caratteri universali, le loro tipologie riconoscibili per tutti noi che vent’anni li abbiamo avuti, come loro. Ricorrendo a sua volta ad un cast di volti nuovi o comunque non ancora abusati dal cinema (salvo affidare all’ex-compagno Louis Garrel il ruolo di Chéreau) mette sullo schermo la sfrontatezza di un’età dove tanto spesso, inconsapevoli del nostro potenziale e della nostra bellezza, tendiamo a esagerare, buttando fuori tutto, non necessariamente il meglio.
Non si può nascondere – a partire dalla stessa Stella, che vive in un hôtel particulier e ha al proprio servizio un simpatico maître filosofo – che siamo di fronte a un gruppo di ventenni con qualche privilegio in più: complice anche un viaggio a New York sulle orme di Lee Strasberg che da poco se ne era andato, diventano presto una compagnia che vediamo quasi esclusivamente nella bolla accogliente e morbida del teatro, pur affrontando l’esistenza a tavoletta, come la Giulietta rossa con cui si trovano a fare delle scorribande per provare l’effetto che fa. Le loro giornate procedono tra le prove di Platonov, il secondo cast che mette in scena con Romans la Pentesilea di von Kleist, la fascinazione per le droghe, le scaramucce tra Chéreau e la sua assistente Isabelle, le seduzioni, le ritrosie, i momenti confidenziali con il bidello: i giovani del gruppo sono quasi del tutto noncuranti di quello che avviene nel mondo esterno, tranne nei momenti in cui il questo presenta loro il conto, soprattutto quando gli effetti degli eccessi e l’epidemia dell’hiv si affacciano alle loro porte.
È una storia di sopravvissuti e di fantasmi, Les Amandiers, col suo titolo internazionale sfacciatamente piacione eppure giusto, Forever Young; non che i mandorli evocati dal titolo originale, disarticolati dal nome storico del quartiere dove si trova il teatro (Côté des Amandiers), siano un simbolo meno efficace di gioventù, evocazione del potenziale assoluto della primavera. È una storia forse motivata da quella forma di sindrome dell’impostore che spesso patisce chi è sopravvissuto, chi come Stella, ha bisogno di dialogarci, con quei fantasmi, di portarli con sé sul palco, in ogni istante, in ogni inquadratura; come in fondo Chéreau stesso aveva esortato a fare, portare sé stessi in scena, e non limitarsi a recitare la parte. E questa lezione, di sicuro, Valeria Bruni Tedeschi, come attrice e ancora di più come cineasta, non l’ha dimenticata.