Più che un documentario per i fan più accaniti di David Bowie, Moonage Daydream (dal titolo della terza traccia presente nell’album The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars) è un’opera cosmogonica e universale che, attraverso un uso minuzioso e parcellizzato delle immagini, ci accompagna con un approccio e un gusto sorprendentemente cinefili nell’esplorazione della sconfinata “galassia Bowie”, scandagliando le innumerevoli forme e fasi in cui si è manifestata nel corso di una lunga carriera a dir poco prolifica e poliedrica.
David Bowie, infatti, non era solo un musicista e una rockstar. Ha sperimentato nel campo della pittura, della fotografia, della scultura, della scrittura. E soprattutto della recitazione. Cinema, tanto, ma anche teatro, suo primo grande amore e porta d’accesso sul mondo dell’arte. Che poi – sembra dirci il regista Brett Morgen che con questo film si cimenta per la terza volta con una figura leggendaria della musica dopo i Rolling Stones (Crossfire Hurricane, 2012) e Kurt Cobain (Cobain: Montage of Heck, 2015) – tutta la vita di Bowie è stata prima di tutto una grande e costante esibizione. Uno spettacolo itinerante, collettivo quando rivolto al pubblico, individuale durante le frequenti pause di riflessione e ricerca vissute in completa e pacifica solitudine. Ma anche una irripetibile e ineguagliata commedia umana messa in scena e vissuta attraverso i tanti personaggi in cui Bowie si è calato, creando ogni volta un affascinante e ininterrotto cortocircuito che rende tuttora difficile stabilire con certezza dove finiva la realtà dell’uomo e iniziava la dimensione fittizia dell’attore.
Non è un caso, forse, se il ritratto di David Bowie che emerge da Moonage Daydream, restituisca e confermi quel forte senso di straniamento che ancora oggi si prova guardando o riguardando L’uomo che cadde sulla Terra (1976). Come se, tra l’uomo e l’artista reali, il personaggio nietzschiano di Ziggy Stardust che si esibiva sul palcoscenico e quello dell’alieno Thomas Newton interpretato nel capolavoro di Nicolas Roeg, in fin dei conti non ci fosse alcuna differenza.
Se il concetto di creazione è il leit motiv di tutto il film, tanto che in apertura Bowie viene introdotto come un messia, il cui arrivo sulla Terra, anticipato da un big bang primigenio, è accolto con un misto di trepidante attesa, eccitante curiosità e insostenibile suspense che genera caos e isteria tra la comunità degli esseri umani del tutto impreparata all’avvento, Moonage Daydream è anche una riflessione molto spirituale sul ruolo delle icone e del divino. Illuminante, in questo senso, e centro nevralgico di tutto il film, il passaggio chiave in cui Bowie ci dice che le rockstar, proprio come ogni idolo in generale, sono state create dagli uomini con una funzione ben precisa. Rappresentano l’espediente con cui l’uomo, di fronte all’impossibilità di conoscere e toccare il divino, crea dei suoi surrogati profani più facili da idolatrare. E, all’occorrenza, distruggere. Motivo per cui, Moonage Daydream è sostanzialmente anche un film sulla vita e sulla morte, e su ciò che di un artista rimane al termine della sua esperienza terrena.
Morgen, che ha impiegato ben quattro anni per portare a compimento questo film, è riuscito nel non facile intento di staccarsi completamente dalle convenzioni e dall’impostazione ingessata e prevedibile del documentario biografico tradizionale, abbandonandosi completamente al flusso libero e ipnotico di suoni, musica e immagini. Queste ultime, non sono limitate esclusivamente al seppur vasto repertorio artistico di Bowie che conta film, videoclip, concerti, interviste, testimonianze di viaggio, ma provengono anche da altre risorse più o meno famigliari della storia del cinema, dalle origini fino a oggi, in un continuo alternarsi di frammenti di cinema più a o meno alto dove, per esempio, Ed Wood dialoga con Méliès e Il settimo sigillo diventa un tutt’uno con Blob, il fluido che uccide. Tocca allo spettatore mettere alla prova la propria cinefilia nel tentativo di risalire alla provenienza di ciascun singolo frammento di film.
Il risultato è una “space odyssey” (o “oddity”) musicale e cinematografica alla scoperta di un universo artistico originatosi dall’inesauribile propulsione creativa del Duca Bianco; un viaggio immersivo, sensoriale e psichedelico senza precedenti, reminiscente allo stesso tempo di un immaginario avanguardistico e cromatico che da Kenneth Anger e James Bidgood arriva fino a Guy Maddin. Non a caso, a Cannes 75, il film è stato inserito fuori concorso tra le “midnight screenings”. Per questi e altri motivi, considerare Moonage Daydream solo come un documentario su David Bowie – il primo ufficialmente approvato da famigliari e fondazione dopo la sua scomparsa nel 2016 – non solo è riduttivo. È profondamente sbagliato