Fate finta che Douglas Sirk abbia deciso di girare una delle sue strazianti storie d’amore come Breve incontro di David Lean, abbassando perciò radicalmente lo status dei suoi protagonisti e, soprattutto, smorzando i toni lussureggianti ed estremi dei suoi intrecci (ma non i colori). E che poi siano passati da lì, da quella storia di quiete solitudini e destini bastardi e occasioni mancate, anche l’etica di Bresson e l’estetica di Godard e il deadpan di Jim Jarmusch e la tenerezza di Chaplin. E che esista un regista (che nella sua carriera quarantennale non ha sbagliato un film) capace come pochissimi altri di mettere insieme e mescolare tutte queste (e molte altre) suggestioni cinematografiche senza perdere un briciolo della propria marcatissima personalità autoriale, senza sembrare uno che esibisce la propria cultura, senza dimenticare l’umanità dei suoi personaggi. Ecco, Aki Kaurismaki è quell’autore, ironicamente, disperatamente romantico, ostinatamente minimalista, sincero, partecipe. Ai suoi personaggi ha sempre voluto bene, anche quando li ha un po’ maltrattati. E ogni sua inquadratura porta impressa la sua firma, la sua visione del mondo.
Il suo nuovo film, Le foglie morte, è un piccolo (81 minuti, un miracolo!!!) capolavoro, dove due anime perse nell’algida solitudine della città s’intravedono, forse si piacciono, s’incontrano, si perdono, si ritrovano, si riperdono, ecc. ecc. Si sa che nel mélo, anche in quello raffreddato, il caso gioca quasi sempre a sfavore della coppia; e qui si accavallano folli incidenti “sirkiani” (ma anche un accenno a Un amore splendido di Leo McCarey), senza parere, tra foglie gialle che volano, volti che scrutano attraverso vetri bagnati dalla pioggia, superfici che riflettono, un accenno di colonna sonora (da Magnifica ossessione), cui fa eco, in un altro momento, il Concerto n. 2 di Rachmaninov, appunto da Breve incontro. Più, visto che i protagonisti al primo appuntamento vanno al Cinema Ritz a vedere I morti non muoiono di Jarmusch (che due maturi spettatori fuori di testa all’uscita paragonano al Diario di un curato di campagna di Bresson e a Bande à parte di Godard) e che davanti allo stesso cinema ritornano nella speranza di rivedersi, ecco locandine e foto di film di Melville, Jack Arnold, Ozu, e Fu Manchu, Brigitte Bardot, Fat City, Rocco e i suoi fratelli, ancora Lean, Godard e Stranger Than Paradise.
Ma questo non significa che Le foglie morte sia un’amorosa collezione per cinefili. Tutt’altro: la sua bellezza, la sua “giustezza”, sta proprio anche nell’autoironia con cui Kaurismaki dissemina le sue passioni cinematografiche (e musicali, con paradossali versioni finlandesi di rock e tanghi e, è ovvio, di Les feuilles mortes di Prévert e Kosma) tra le pieghe di una storia che è molto quotidiana, umana e contemporanea. La storia di Ansa e Holappa, due proletari sbattuti fuori più volte dai loro precari lavori, dentro una città che, fin verso la fine, pare sgangherata e vuota, ma dove corre sotterranea (come accade sempre nei suoi film) una corrente di solidarietà tra umili: un’infermiera ti regala dei vestiti, due colleghe si autoaccusano, con te, di furto, un uomo salva cani dal canile e dalla soppressione. Anime solitarie, inquadrate le une di fianco alle altre, sul divano di una casa modestissima ma senza un colore o un arredo sbagliato, sulla panchina di un parco, contro le pareti azzurre del California Pub o davanti al palco del locale dove si fa karaoke, Get On, Baby!, un tango di Gardel, un lieder di Schubert, Mambo italiano, tutti in finlandese; e volti imperscrutabili, battute fulminee, silenzi, rotti solo, ogni volta che qualcuno accende una radio (niente tv, nei film di Aki, solo cinema e radio) da un ininterrotto notiziario sulla guerra in Ucraina. Perché non siamo in un mondo a parte, ma in un hopperiano (Edward), triste mondo attuale; anzi, appeso a una parete del California Pub c’è addirittura un calendario del 2024, e chissà cosa vuole dire. Tutto qui: basta poco per catturarti il cuore e lo sguardo, basta essere bravi e limpidi come Aki Kaurismaki. E avere a cuore la gente, come lui e come Chaplin, l’altro spirito guida di questo film, intravisto nei poster fuori dal Ritz e in certe inquadrature e citato nel nome che Ansa dà alla randagia che adotta, una rossiccia di media taglia che pare incredula di aver trovato qualcuno che si occupi di lei. Perché, tra i tanti lati umani di un film di Kaurismaki, non poteva mancare quello canino.