Nei primi minuti del roboante e lunghissimo incipit di Indiana Jones e il quadrante del destino il personaggio interpretato da Toby Jones – un professore di archeologia di Oxford, vecchio amico del protagonista, alla prima apparizione nella saga – all’ufficiale nazista che gli chiede se lui e Indy siano sulle tracce della stessa reliquia che interessa al Führer perché sanno dei poteri magici che questa racchiude risponde che no, a loro interessa solo «preservare la storia!». Ecco, potremmo dire la stessa cosa rispetto all’operazione che Mangold e gli altri autori del film (fra cui spicca il veterano David Koepp) fanno con questo quinto capitolo di Indiana Jones. Ovviamente se intendiamo come “storia” quella della saga stessa.
Del resto quest’ultimo (forse di sempre) episodio – il primo senza Spielberg alla regia e Lucas al soggetto, anche se entrambi compaiono come produttori esecutivi – funge anche da omaggio al suo protagonista, di cui celebra l’immensa popolarità e la straordinaria iconicità e del quale coltiva e alimenta l’immaginario. Non è un caso che Indiana sia identificato continuamente attraverso gli oggetti che lo hanno reso celebre: il cappello – sul cui dettaglio il film simbolicamente si chiude –, la frusta, la borsa di cuoio e persino il travestimento da nazista, diventato ormai una costante. Anche gli elementi narrativi e drammaturgici ricalcano uno schema codificato: come la giovane compagna di avventure con cui si innesca un rapporto conflittuale in pieno stile screwball comedy (qui interpretata da Phoebe Waller-Bridge), il ragazzino scaltro ma coraggioso che accompagna la coppia, i nazisti appunto, che tornano a essere i nemici di sempre (e sicuramente i più convincenti, come gli autori dimostrano di aver capito). Ma anche altri piccoli elementi grafici come la lotta con qualche branco di animali sgradevoli (le murene, ma anche le scolopendre giganti e i ragni) o il magazzino – che qui diventa il vagone di un treno – pieno di misteriose casse di legno.
Insomma un vero e proprio canone che viene utilizzato come inesauribile fonte narrativa alla stregua di molti altri reboot, remake e sequel di celebri saghe cinematografiche del passato, ma che rispetto a queste ha l’unicità – forse voluta, forse obbligata – di non poter prescindere dal proprio protagonista. Del resto Indiana Jones, a differenza di Star Wars, Ghostbusters o Rocky/Creed – giusto per citare opere che hanno avuto un pari grado di popolarità – non può fare a meno di Indiana Jones. Nel senso del personaggio ma anche dell’attore che lo interpreta: Harrison Ford. E non è solo una questione di identificazione dell’opera con il protagonista – è vero che è quest’ultimo a dare il titolo a tutti i film della saga, ma è così anche per James Bond per dire… – ma proprio un fatto fisico, corporeo, materiale. Harrison Ford è Indiana Jones e basta, non può essere sostituito, ripensato né ri-mediato e la sua presenza fa letteralmente il film. In questo senso il lavoro di de-aging fatto con il corpo dell’attore – che nella prima sequenza ringiovanisce di oltre quarant’anni – ha dello sbalorditivo. Sia per la qualità degli effetti speciali, sia per come viene esplicitamente dichiarata l’inscindibilità totale fra Indy e Ford. Una cosa non così scontata se pensiamo a come nel caso delle celebri saghe sopracitate i vecchi protagonisti siano stati messi da parte, sostituiti o siano semplicemente scomparsi (lo stesso Ford nei panni di Han Solo viene fatto fuori già nel primo episodio della nuova trilogia di Star Wars).
Se allora Ford deve essere il centro dell’universo “jonesiano” la scrittura non può non tenere conto che l’attore, ormai ottuagenario, deve per forza mostrare nel corpo e nello spirito i segni del tempo che passa. E allora gli autori si reinventano un Jones vecchio, che alla fine degli anni Sessanta – il film è ambientato per gran parte nell’estate del ’69 durante i mesi in cui l’America festeggiava l'allunaggio – se ne va malvolentieri in pensione, ha un matrimonio (con Marion) fallito alle spalle (e altri traumi di cui tacciamo per non fare spoiler) e fatica a comprendere il mondo che gli sta intorno. Il conflitto fra l’archeologia, la scienza che studia l’antichità e fa sembrare antico anche chi la esercita e la conquista dello spazio che invece incarna la voglia di cambiamento e di futuro della società americana degli anni Sessanta è in questo senso piuttosto evidente. Ma se Indy è un arnese vecchio e un po’ arrugginito non significa che sia anche stanco. E allora si imbarca nell’ennesima avventura non facendo in sostanza niente di diverso da quello a cui ci aveva abituato: corre, si traveste, scappa, prende a pugni i nemici, guida ogni sorta di mezzo, si immerge nelle profondità marine, si arrampica su pareti scoscese e penetra nelle profondità della terra. E tutto per andare alla ricerca di antichi tesori che “dovrebbero stare dentro un museo” ma che allo stesso tempo hanno poteri che la scienza non può spiegare e che sollevano le più complesse domande sul significato della vita e la natura umana. Esattamente come in tutti gli altri quattro capitoli. E forse il senso di Indiana Jones e il quadrante del destino è proprio quello di non aggiungere niente, di mostrare come in fondo un personaggio immortale (che immortale lo è per davvero, come sappiamo dopo il terzo capitolo) come Indiana Jones non debba fare e dire niente di più di quello che ha sempre detto e fatto e che l’unica cosa che gli si chiede è quella di “essere”.
Tuttavia Mangold non è Spielberg e i film d’azione di oggi non sono quelli degli anni Ottanta. E allora a essere diversi rispetto al passato sono sicuramente lo stile e il ritmo del racconto. Per questo il film è una specie di lungo, infinito, estenuante inseguimento di due ore e venti, dove a livello narrativo – a parte gli intrighi legati alla caccia al tesoro – non succede quasi nulla di sorprendente e se non fosse per il ritorno di alcuni iconici personaggi (anche qui non diciamo quali, ma basta guardare il trailer) ci sarebbe davvero poco altro da segnalare. E forse il difetto maggiore di un regista abile – e che riesce perfettamente a raccogliere un’eredità ingombrante – come Mangold è quello di non spingere abbastanza sulle corde della commedia. Uno dei tocchi più riusciti degli Indiana Jones spielberghiani è sempre stato quello di fondere l’azione e la fascinazione per i romanzi e i fumetti d’avventura degli anni Trenta con un tono da commedia brillante tipicamente hollywoodiana, tutta giocata sul conflitto sui sessi e ritmata dagli overlapping dialogues. La presenza di Waller-Bridge – così come il cameo di Antonio Banderas – lasciava presagire una direzione di questo tipo della sceneggiatura, mentre dopo il quarto episodio (che resta il meno riuscito di tutti), quest’ultimo è forse quello in cui si ride di meno. Ed è un vero peccato, perché nonostante un finale un po’ confuso (oltre che estremamente lungo) che deforma fino alla distorsione proprio quel canone che Indiana Jones ha saputo scrivere e nonostante i dubbi e le ironie di molti rispetto al ritorno al cinema di un personaggio troppo anziano e fuori dal tempo per essere ancora credibile, Indiana Jones e il quadrante del destino commuove e affascina ancora come quarant’anni fa. O insomma... quasi!