Joshua Oppenheimer

The End

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C’è qualcosa di comprensibilmente ossessivo nella continua riproposizione di immagini apocalittiche nel cinema contemporaneo. Il mondo oltre lo schermo non fa che metterci di fronte a quella che sembra l’inevitabilità della fine, mentre la migrazione climatica e il susseguirsi di eventi atmosferici eccezionali segnano il ritmo di un’ecoansia ormai sempre più diffusa. Le orde di infetti che abitano gli schermi televisivi (The Last of Us) o cinematografici (il recente 28 anni dopo) sono solo un esempio fra i molti possibili di una continua rappresentazione di un mondo ormai collassato, che cerca di vivere il tempo del dopo.

Lo stesso avviene nel musical The End, che dopo il dittico The Act of Killing (2012) e The Look of Silence (2014) sorprende lo spettatore con una narrazione claustrofobica, paranoica ma esteticamente raffinata. Una famiglia di soggetti anonimi (indicati soltanto dalla loro funzione narrativa: Madre, Figlio, Padre etc.) vive in un bunker composto da un insieme di stanze-container ricavate sul fondo di una miniera dopo che il mondo è, per qualche motivo mai veramente spiegato, giunto alla sua fine. Le ragioni del collasso sono ignorate, non c’è più modo di interrogarsi sulle cause della fine, perché l’attenzione di Oppenheimer è tutta rivolta ad una impietosa osservazione delle quotidiane follie di un microcosmo che prova a rifondarsi rinarrando continuamente il passato.

Il tempo scorre inesorabile e la narrazione continua a ristagnare, girando in tondo, perché d’altronde cos’altro c’è da fare in questo mondo che non c’è più se non impegnare il tempo in occupazioni inutili come risistemare dei quadri o scrivere un memoir falsamente autocelebrativo? Così, se in un musical i numeri musicali dovrebbero avere il compito di portare ad uno sviluppo della vicenda, qui le canzoni (belle e ancora melodrammaticamente classiche) servono soltanto da luogo di sospensione, quasi un pezzo di bravura e poco altro.

Anche l’intrusione di un corpo estraneo nell’economia del gruppo (la Ragazza interpretata da Moses Ingram), pur contribuendo a rivelare alcune delle storture su cui si fonda questa microsocietà iperborghese, non riesce in definitiva a romperne le strutture fondamentali e ne risulterà comunque assorbita. L’influsso del mondo esterno è in qualche modo irrilevante, quando non c’è più un mondo esterno a cui fare riferimento.

The End è allora un film su un epilogo già scritto, un processo non solo irreversibile ma inemendabile. E così, nella lunga attesa che prepara il vuoto assoluto (il rinnovamento della famiglia, garanzia di continuità della specie, è comunque lento e problematico), perché non lasciare delle tracce di sé, come un diorama che racconti la storia degli Stati Uniti, un archivio di capolavori o un romanzo sulla grandezza del proprio capofamiglia? Poco importa che non siano aderenti alla realtà; d’altronde si tratta di un problema secondario, se non resterà nessuno per metterne in dubbio l’accuratezza.


 

The End
Danimarca, Germania, Irlanda, Italia, Svezia,, 2024, 148'
Titolo originale:
id.
Regia:
Joshua Oppenheimer
Sceneggiatura:
Rasmus Heisterberg, Joshua Oppenheimer
Fotografia:
Mikhail Krichman
Montaggio:
Nils Pagh Andersen
Musica:
Marius De Vries, Josh Schmidt
Cast:
Tilda Swinton, Michael Shannon, Tim McInnerny, George MacKay, Bronagh Gallagher, Moses Ingram, Lennie James, Danielle Ryan
Produzione:
Final Cut for Real, The Match Factory, Dorje Film, The End MFP
Distribuzione:
I Wonder Pictures

Il mondo è finito. Ma l’umanità, forse, no. In un bunker sotterraneo riarredato come una casa di lusso, vivono e sopravvivono Madre, Padre e Figlio, e cercano di mantenere la speranza e un senso di normalità aggrappandosi a piccoli rituali quotidiani. Ma l’arrivo di una ragazza dall’esterno incrinerà il delicato equilibrio di questo apparente idillio familiare.

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