Nel nome di Edipo: nella storia della musica il passaggio dal folk al rock e viceversa è uno snodo amletico di fantasmi paterni, che siano genitori o mentori, emblemi di dannazione o di crescita, sempre però tra le ombre della ribellione e dell’emancipazione, nel battesimo, più che di aneliti freudiani, di una svolta epocale a stelle e strisce che, con frizioni e incertezze, riecheggia nel vissuto più intimistico di un cantautore. È il paradigma di un crocevia psicologico e creativo di un involontario dittico recente, quello di A Complete Unknown di James Mangold (2024), dedicato alla contestata conversione rock di Bob Dylan nel 1965, e di Springsteen – Liberami dal nulla di Scott Cooper (tratto da un saggio di Warren Zanes), che inquadra un capitolo cruciale della carriera di The Boss, quella dell’incisione molto artigianale dell’album Nebraska (1982), che segnò un’inattesa inversione verso toni più abissali e sofferti, riflessi delle prime avvisaglie di depressione. Là, per il menestrello di Duluth, tutto ruotava intorno a una chitarra elettrica, pur contestualizzata negli approdi al Greenwich Village e nei primi, travolgenti successi con l’acustica; qua intorno a un registratore casalingo, osteggiato per ruvidità tecnica dai discografici, increduli anche di fronte al diniego di Springsteen di svolgere tour e promozioni.
Biopic nel solco di tempi che cambiano, nella consumazione audiovisiva che iscrive il format frammentato della serialità (tanto da essere già in cantiere un sequel), in una logica produttiva che predilige il twist epifanico di una vita, l’episodio che si erge a sineddoche di una poetica decennale, un interstizio interiore che sonda il genio con accenti di assoluto, in un’indagine insolubile. Una conciliazione tra particolare e universale che Scott Cooper (Black Mass, The Pale Blue Eye) compendia nella dialettica tra il produttore Jon Landau (Jeremy Strong, sempre superlativo) e lo stesso Bruce (Jeremy Allen White, in un’arena di mimetismo), tra il promotore di un singolo in disco, come traguardo di un percorso, e l’alfiere della raccolta in album, come mosaico di una complessità strenuamente autentica e viscerale.

In un andirivieni temporale disciplinato, se non ordinario nella sua leggibilità didascalica, il racconto del 1982, tra The River e Born in the U.S.A., è inficiato dalla memoria dell’infanzia traumatica con un padre violento, in una modulazione binaria come un battito cardiaco che prosciuga il presente in questo aggrovigliato bagaglio irrisolto, bandendo l’affondo analitico nei fragili equilibri del successo e dei suoi compromessi, incorporando l’aura di un loser mancato e di un cantore dei dimenticati in un rodaggio psicologico che non sfuma verso un altrove e il suo mistero oltre la sua stessa immagine, che invece A Complete Unknown, pur nella sua limatura mainstream, sapeva tracciare.
Una crisi personale nella scrittura della redenzione creativa che il film inietta di riverberi autunnali, nei cromatismi e nella pacatezza drammaturgica, lontani da un’estetica terminale (che invade, per altri sentieri ma con vibrante struggimento, Oh, Canada, altro ritratto d’artista spezzato a firma di Paul Schrader, richiamato in Springsteen), nonostante il ripiegamento del protagonista coincida e intercetti la fine di una civiltà, quella degli infuocati ma impegnati Seventies, e l’inquietudine liminale nell’avvento dell’era Reagan.
Liberami dal nulla, il verso finale di Open All Night, l’ottava traccia dell’album: un nulla di muta e inestricabile agonia, ma anche inchiostro della malinconia (come svela Jean Starobinski in una bellissima raccolta di saggi), pagina bianca da cui estrapolare catartiche composizioni al di qua di ogni abuso di romanticismo, che il film, con una semplicità espressiva di intenti che trasuda umiltà narrativa e grado zero dell’artificio, distilla con inserti di cinema nel cinema, condensa con stralci di grande letteratura. Come da aneddotica springsteeniana, la notte di Bruce è quella del gotico americano della prosa di Flannery O’Connor, delle cronache nere del serial killer Charles Starkweather, nella caccia fiabesca e sinistra di La morte corre sul fiume di Charles Laughton (parabola di padri assenti e famelici surrogati); il suo nulla è la casa in fiamme di La rabbia giovane di Terrence Malick, con echi di Steinbeck, John Ford e del loro Tom Joad, che affiorano in Nebraska già prima di un fortunato brano del 1995.
Di Springsteen resta dunque la messa a fuoco della possibilità della resistenza e della svolta nell’inettitudine umana (con la débâcle affettiva con una donna) e nella grandezza artistica, che la regia, pedissequa verso un biografismo da manuale, delega ad altre storie, epopee e icone, ma con una rispettosa cucitura sul suo dolente personaggio che non può estraniare i seguaci del mito.
Il viaggio di Bruce Springsteen nella realizzazione del suo album del 1982 Nebraska, emerso durante la registrazione di Born in the USA con la E Street Band