Tre anni di lavorazione, più di 2600 ore di girato all’interno di un distretto industriale che conta circa 20000 officine tessili, per un film di oltre tre ore e mezza che è solo il primo episodio di un progetto in quattro capitoli. Questi sono alcuni dei numeri del nuovo documentario di Wang Bing, uno che da sempre lavora per accumulo, creando opere che affastellano immagini in maniera estenuante e senza sosta. E che a questo enorme sovrapporsi di materiale chiede di produrre senso, di coprirsi di valore testimoniale – in senso politico oltre che sociale – ma anche di far emergere emozioni e sensazioni.
Youth (Spring) è un altro film sul lavoro, girato nel complesso industriale di Zhilizhen a un centinaio di chilometri a ovest di Shanghai, nella Cina orientale. Si tratta di un luogo molto particolare, che Wang ha trovato quasi per caso e del quale ha compreso fin da subito la specificità. Zhilizhen rappresenta infatti uno dei pochissimi casi di impresa privata di tutta la Cina: un sistema di produzione sul quale lo stato non ha alcun controllo e dove le forme di finanziamento non passano attraverso le banche (statali), ma sono regolate dalla domanda e dalle leggi del mercato. In sostanza una filiera dove nessuno viene pagato (fornitori, imprenditori, operai) fino a che i prodotti non sono venduti al dettaglio. Nel momento in cui si ottengono i ricavi questi vengono ridistribuiti a tutti coloro che hanno avuto una parte nella produzione. Ciò comporta che i lavoratori – che sono tutti stagionali, perché la produzione va da febbraio a giugno (da cui il titolo del film) e arrivano da ogni parte del paese – non vedano un soldo fino a molto dopo aver smesso di lavorare. E restino quindi “prigionieri” negli enormi casermoni che punteggiano la labirintica pianta di Zhilizhen, passando il tempo nei modi più disparati: soprattutto lavorando ovviamente – i turni vanno dalle 8 alle 23 con due ore di pausa per mangiare – ma anche dormendo, giocando, flirtando, litigando, discutendo, gironzolando per i dormitori o per le strade tutte uguali del distretto…
È qui che Wang inserisce il suo film. Quello che fa è infatti osservare con discrezione queste donne e questi uomini, tutti ragazzi giovanissimi – fra i 20 e i 22 anni – mentre vivono una vita alienata, ripetitiva e senz’altra ambizione che non sia quella di racimolare più denaro possibile per tentare la fortuna da un’altra parte. Le loro vite consacrate (sacrificate) al profitto sembrano la metafora perfetta per comprendere la Cina di oggi: un luogo in cui l’ideale collettivista sul quale è regolata la società si amalgama in modo sempre più indistinguibile alle logiche del capitale. Dando vita a una distorsione sociale vertiginosa che denota spiccati tratti di mostruosità. La scelta del regista di chiudere il quadro, filmare prevalentemente in interni e stringere i personaggi in uno spazio ricolmo di macchine da lavoro, panche, tavoli, letti e soprattutto merce rende perfettamente questo concetto. I corpi dei lavoratori sommersi e resi quasi indistinguibili dalle montagne di merci, nel caso specifico tessuti – alcuni lavorati altri ancora grezzi – rappresentano un’immagine perfetta degli eccessi delle politiche neoliberiste dentro un sistema strutturalmente non ancora pronto ad accoglierle.
Quello di Wang è quindi molto più di uno spaccato sociale o di un reportage, come è stato detto da molte parti, è un vero e proprio viaggio immersivo – di cui Youth (Spring) è, lo ribadiamo, solo l’inizio – dentro un luogo cruciale della nostra contemporaneità. Una discesa agli inferi del presente che viviamo e che, come molto di quello che ci circonda, se osservato dalla prospettiva cinese, lascia ancora più sgomenti.