Bailey ha dodici anni, un ciuffo ribelle di capelli ricci che decide di tagliarsi più per polemica che per ribellione, abita con il padre uno squat da qualche parte nel sud di Londra, striscia di terra arida per quanto vicina all’acqua. Bailey governa a malapena la sua famiglia, più esplosa che banalmente disfunzionale, tra padri irrequieti, fratelli-amici e una madre inadatta a cercarsi un buon fidanzato, mettendo anche a rischio l’incolumità e la salute mentale dei suoi tre fratelli e sorelle più piccoli.
Bailey però, dal nulla, trova un amico: uno strano essere animalesco (Franz Rogowski, perfettamente a suo agio nel mettere in campo una matrice ferina, inconoscibile), anche lui alla ricerca di una possibile radice, di un ipotetico sentire comune. E in questa amicizia impossibile, in questa finestra su una realtà altra, volatile – che raddoppia i video che la ragazza riprende sul suo cellulare, rapita dalle circonvoluzioni degli uccelli – Bailey riscopre una propria forza interiore, una capacità di autodefinizione che il mondo circostante sembra volerle negare.
Andrea Arnold, dopo la trasferta americana di American Honey e la digressione animalista (postumana?) di Cow, torna alle sicure sponde della suburra inglese, in un degrado metropolitano sospeso tra Londra e il mare, sognato e raggiunto in treno e destinato a rivelarsi un sipario di fango dove intravedere forme di vita diverse e non così facilmente rappresentabili. Bailey corre e scappa; scappa dai vestiti che il padre vuole imporgli per presenziare a un suo improbabile matrimonio; scappa dagli amici che la rincorrono e li rincorre invece quando loro vorrebbero che lei scappasse. È in continuo controtempo. Ignara, anche dopo le prime mestruazioni, dello spazio che quel mondo potrebbe riservarle. Ma Bailey, osservando farfalle e uccelli, forse invidiosa delle ali che lei non possiede, trova passo dopo passo un senso di responsabilità, di maturazione, di crescita.
Arnold maneggia quel filo elettrico dell’aprirsi al mondo con magistrale sicurezza: l’esordiente Nykiya Adams – come prima di lei la Katie Jarvis di Fish Tank – porta sullo schermo un nervosismo audace, una fisicità precoce ma sempre figlia dei suoi anni, un potenziale ribelle sempre sul crinale dell’esplosione. Bailey è in realtà una bussola su un mondo apparentemente alla deriva. Ogni suo movimento elettrico porta a una reazione emotiva; il suo senso di protezione per un’idea familiare che nella realtà le appare esplosa è quasi uno shock termico, una feroce voglia di affermazione. La sua capacità emotiva, il suo riuscire a donarsi è una conquista conseguente a uno sforzo: solo Bird nella sua natura ondivaga – l’amico immaginario né uomo né animale – può essere capace di questionare a fondo la sua natura più profonda. Arnold pedina i suoi personaggi, come è sua abitudine, regalando loro un senso di realtà quasi straniante.
I personaggi sono stagliati su uno sfondo concretissimo, ogni sequenza sembra scaturire da un urgente senso di realtà. Arnold non ci regala una semplice immersione in quegli ambienti, bensì li vivifica dando loro una dignità apparentemente impossibile, li abita; insomma, li rende “veri” anche attraverso un utilizzo narrativo della colonna sonora smaccatamente brit-pop (Blur, Verve, Fountain D.C.) che sa assumere sempre più un valore metanarrativo e una fluidità di messa in scena al servizio dei personaggi.
Bird è, ancora una volta nella cinematografia di Arnold, un racconto di formazione al contrario, la negazione della semplice ipotesi di un coming of age, un accenno di lotta all’accettazione di una realtà a prima vista infame. L’osservazione entomologica – cristallina ed empatica, sarcastica e feroce – non soffoca il suo sguardo, che è rivolto sempre verso un’umanità disadatta ma fertile. E, rispetto ai suoi film precedenti, le scarne e ben definite derive onirico-favolistiche amplificano il senso di potenziale rivalsa, di faticosa affermazione, di liberatoria affermazione di sé. Bailey saprà affrontare le conseguenze delle proprie scelte, ma prima ancora saprà imparare ad accettare la propria posizione sghemba, il suo essere animale in un mondo animale, umana in un mondo umano. Volta alla protezione dagli altri per scelta, concentrata sulla sua sopravvivenza per pura necessità.