Il fatto che un regista istrionico come Serebrennikov adattasse uno dei romanzi più stupefacenti degli ultimi anni, scritto da un autore geniale come Emmanuel Carrère e basato su un personaggio smisurato come Ėduard Limonov sembrava un’operazione talmente azzeccata da far pensare che niente sarebbe potuto andare storto. E invece...
E invece no. Il risultato è un film anodino e banalotto, che stanca fin dalle prime inquadrature, non affonda, non sceglie una direzione e non va da nessuna parte. La vita di Limonov, personaggio inventato e reale insieme – modellato da Carrère a partire da Ėduard Veniaminovič Savenko, scrittore, poeta, sovversivo e mille altre cose nato in Urss durante la seconda guerra mondiale – nel romanzo attraversa la storia della Russia e quella del Novecento da Mosca a New York passando per Parigi, il Donbass ucraino, i Balcani dilaniati dalla guerra civile fino al Kazakistan e Samarcanda, mentre nel film viene ridotta a una sorta di biografia picaresca di un artista eccentrico che si trasforma in una canaglia (peraltro senza che nessuno spieghi come e perché).
La storia inizia a Charkiv e si sposta prima a Mosca e poi a New York dove Limonov, poeta scomodo e insieme connivente al regime sovietico, giunge nel 1975 dopo essere stato espulso dal proprio paese. Ci arriva con Elena, prima amante e poi moglie con la quale – nonostante il grande sentimento che li unisce – finisce quasi subito. In una Manhattan che Serebrennikov dipinge come una cartolina composta dai più ovvi e stucchevoli stereotipi sulla New York degli anni Settanta – cita esplicitamente Taxi Driver e i Velvet Underground – Limonov si consuma fino al degrado, ma riesce a rinascere e da scrittore maudit si reinventa maggiordomo di un ricco editore tramite il quale entra in contatto, e subito in contrasto, con altri intellettuali russi in esilio. Lentamente inizia a radicalizzare il proprio credo politico e a spostarsi su posizioni nazionaliste estreme di stampo “rosso-bruno”.
Tornato in Europa si stabilisce a Parigi dove ingaggia una serie di scontri ideologici con gli intellettuali francesi che finiscono per emarginarlo costringendolo a tornare in patria. Dopo il 1991 Limonov rientra in Russia dove fonda un partito ma viene presto accusato di terrorismo e incarcerato. Il film si chiude con l’uscita di prigione del protagonista di fronte a una folla di giornalisti e sostenitori festanti. Le didascalie ci informano poi che Limonov è morto nel 2020 dopo aver abbracciato la causa dei filorussi nella guerra del Donbass.
In un tale racconto, quasi didascalico per come resta attaccato alla superficie delle cose, a venire meno è la complessità di un personaggio che è invece l’esatto contrario della superficialità. Se la grandezza del romanzo di Carrère sta nel tratteggiare l’inafferrabilità di Limonov – al quale ci si affeziona in modo viscerale e nei cui confronti nello stesso tempo si prova il più arcigno disprezzo – il film spreca malamente l’opportunità. Serebrennikov manca proprio l’elemento cruciale e più complesso: uscire dal biografismo, dalla mimesi storica e fisiognomica per dare tridimensionalità al personaggio e cucirgli addosso l’ambiguità, le controversie e le sfumature che lo contraddistinguono. Il suo Limonov (interpretato da un Ben Whishaw poco ispirato e che recita in inglese con un ridicolo accento russo) non è l’uomo che viaggia attraverso il tempo incidendolo come paradigma o simulacro della contemporaneità dipinto da Carrère, ma nemmeno una figura archetipica che incarna gli stigmi del mondo di oggi e si porta addosso le ferite della storia dell’Europa orientale degli ultimi cinquant’anni. È piuttosto una specie di diavoletto punk dominato dagli eventi e dalla storia, che nessuno prende sul serio e verso cui nessuno, per primi gli autori, prova alcun affetto.
Ed è un peccato perché è proprio la mancanza di una scrittura forte – che nemmeno la partecipazione di Pawel Pawlikowski e dello stesso Carrère (che compare nel film nella parte di se stesso) in veste di consulente riesce a rendere tale – a penalizzare la struttura narrativa e trasformare il film nella specie di biopic in stile fiction tv che è. Un ritratto che non è né esagerato né lacunoso, ma semplicemente sbagliato. Perché un personaggio come Limonov non ha una sola biografia, ma tante quante le vite infinite che ha vissuto. E che un film così, da solo, non può raccontare.