Un produttore canadese di video industriali, dalla morte della moglie Rebecca, quattro anni prima, si è dedicato principalmente a un cimitero futuristico nel quale ogni salma è avvolta in un sudario corredato di microcamere che permettono ai vivi, attraverso uno schermo sulla lapide, di osservare il progressivo disfacimento dei loro cari defunti. Un’impresa di successo, tanto che altri paesi vogliono installare cimiteri analoghi, ma non sufficiente a lenire il dolore del protagonista di The Shrouds, Karsh, interpretato da Vincent Cassel, che riproduce vagamente la fisionomia di Cronenberg nel taglio di capelli e nell’abbigliamento.
Anche il suo nome, forse, non è casuale: si chiama Karsh infatti lo spettro per la lama di Morgul di Morgomir di L’ascesa del Re Stregone (espansione del gioco di strategia Il Signore degli Anelli: La battaglia per la Terra di mezzo 2), che ha due specialità, Congela Anima e Sussurro di Morte; ma soprattutto si chiamavano Yousuf e Malak Karsh (fratelli di origine armena) due grandi fotografi canadesi, celeberrimo il primo per i suoi ritratti di personalità di tutto il mondo, una gloria nazionale il secondo per le sue foto di paesaggi naturali o urbani, apparse anche sui biglietti da un dollaro e su una decina di francobolli.
Insomma, non credo che un intellettuale canadese chiami per caso Karsh il suo protagonista, che nel XXI secolo riprende e rende accessibili immagini e ritratti. Una documentazione video non più solo del Canada, ma del mondo. Certo, dal sottosuolo; ma, come dice Karsh a una “blind date” cui ha dato appuntamento nel proprio scicchissimo ristorante annesso al proprio scicchissimo cimitero: «How dark do you want to go?». Per seguire il suo dolore (un dolore che fa guastare i suoi denti) e la sua elaborazione del lutto, bisogna davvero affrontare il buio più nero, bisogna “spegnersi”.
Parte bene The Shrouds, con i dialoghi affilati tra Karsh e il dentista, la blind date, la cognata Terri, quasi uguale alla moglie morta (entrambe interpretate da Diane Kruger), l’avatar/assistente Honey (infida, per voglia di tenerezza può trasformarsi in un koala, ma può anche tradirti), con tracce e suggerimenti del body horror che è sempre stato proverbialmente accostato a Cronenberg, meno notturno del precedente Crimes of the Future, ma altrettanto elaborato e inquietante sul piano concettuale e immaginario. Poi però il mondo esterno fa intrusione nell’ossessivo universo onirico di Karsh, percorso dalle immagini della moglie via via devastata dalla malattia, come nel suo razionale lutto: alcuni vandali distruggono parti del suo cimitero, tagliano i cavi collegati ai sudari e Karsh, che è sul punto di espandere la propria attività all’estero, deve capire chi è stato. E qui entra in gioco, letteralmente, chiunque, dagli ambientalisti islandesi agli scienziati cinesi che hanno collaborato con lui, da un magnate ungherese all’oncologo ex fidanzato di Rebecca che la curò, dagli hacker russi a un doctors’ plot.
E i ragionamenti, le ipotesi si susseguono, da un incontro all’altro, in una vorticosa confusione dei tasselli del puzzle, a confronto della quale invece risulta limpidissima la sotterranea, angosciante ossessione di Karsh (ma anche di altri personaggi): la malattia, la perdita, il corpo, il sesso, la gelosia, la morte, il vuoto. Troppe parole dette scorrono sulle immagini nitide e quasi volutamente non suggestive, quasi Cronenberg tentasse una razionalizzazione del caos universale contemporaneo a fare da specchio al dolore personale che gli ha dettato questo film (la morte della moglie nel 2017). Ma l’incubo, forse per la prima volta, non coglie nel segno, non si fa collettivo. La freddezza con cui ci straziava l’anima e gli occhi negli altri film non prende il volo.
La vita deve continuare, sull’orlo della disgregazione del corpo e della morte, ma l’oscura poesia non canta più.