Concorso

Trei kilometri până la capătul lumii di Emanuel Pârvu

focus top image

Adi (Ciprian Chiujdea), che sta frequentando l’ultimo anno di liceo nella cittadina di Tulçea, è a casa dei suoi per le vacanze, in un villaggio disperso nella campagna sul delta del Danubio. Una notte torna a casa con addosso i segni inequivocabili di un pestaggio feroce, e senza il cellulare. Accompagnato dai genitori (Bogdan Dumitrache e Laura Vasiliu) a sporgere denuncia, si sottopone a una prima perizia medica, ovviamente in attesa di comprendere quali siano state le ragioni della violenza. I principali sospettati sono i figli di un vicino verso il quale il padre di Adi ha un debito; è un sospetto che verrà confermato, ma con un movente diverso: i due fratelli Zarov hanno pestato Adi perché l’hanno visto con un forestiero fuori da un locale, in atteggiamenti affettuosi, effusioni tra due persone dello stesso sesso, che la provincia estrema della Romania, a tre chilometri dalla fine del mondo, non è pronta ad accettare.

Tre chilometri. È la distanza tra il villaggio e le acque aperte del Mar Nero. Un limes geografico che vorrebbe rappresentare al contempo un Arcadia di bellezza stupefacente e un luogo di arretratezza, ristagno culturale, sopravvivenza di una consuetudine endemica con la corruzione, con gli strascichi ossequiosi lasciati dalle gerarchie comuniste e con l’ingombrante presenza della Chiesa, di un’idea retorica della religione e della superstizione. Un limes dove la città più grande, dall’altra parte del delta, ha novantamila abitanti, ed è vista come Sodoma, immaginarsi cosa possono essere Bucarest o le grandi capitali europee. Un limes dove ancora si può pensare di chiedere alla famiglia di bulli locali di patteggiare restituendo un telefono e chiedendo scusa, per non incorrere in una possibile condanna di alcuni anni per le aggravanti del caso; che però è lo stesso limes dove la presunta omosessualità della vittima può rovesciare i rapporti di forza e mettergli contro i genitori, oltre all’intero villaggio. “Se l’è cercato”.

Il tema dell’omofobia nella società e soprattutto nella provincia è d’altra parte visibilizzato senza troppi imbarazzi nel dibattito di molti paesi dell ex blocco sovietico: l’omosessualità, le identità queer raccontate come conseguenza di un ammorbidimento dei costumi, di un’occidentalizzazione indotta dai governi centrali. Però, per ammissione del regista stesso lo spunto per fare un film sulle comunità di queste zone remote del Paese è arrivato da un caso di cronaca di alcuni anni fa, e se si può, ancora più grave: una ragazza stuprata da sette uomini in un villaggio remoto della Romania, con il paese intero che le si rivolta contro: “se l’era cercata”.

Il tema che Emanuel Pârvu vorrebbe evidenziare è la possibilità, all’interno di un contesto del genere, della sopravvivenza dell’amore incondizionato, quello che dei genitori dovrebbero provare per un figlio o una figlia oggetto di violenza discriminatoria. Purtroppo però è costretto ad ammettere che le condizioni della società deformano questa idea di amore, e che questa deformazione è in qualche misura alimento principale della stessa situazione di arretratezza che l’ha generata. Lo fa però in una maniera che funziona solo a metà, fermandosi a tre chilometri dal mare aperto, ma molte, troppe miglia dai modelli cinematografici della new wave rumena dei Mungiu, dei Puiu e dei Sitaru, con i quali Pârvu, attore prima ancora che sceneggiatore e regista, è cresciuto, e da cui in qualche misura prende le mosse.

Il confronto è obbligato, proprio perché il meccanismo di rappresentazione fuori scena dell’incidente iniziale, seguito dall’indagine con tentata risoluzione del conflitto, in un contesto che è tratteggiato immediatamente come un cul-de-sac è qualcosa che abbiamo visto fare con esiti di ben altra magnitudine, per dire, da Mungiu in Oltre le colline, in Un padre e una figlia o in Animali Selvatici. Ma oltre a non deflagrare con la stessa potenza, il conflitto tra i personaggi rimane più sulla carta che non nella messinscena: non bastano di per sé i long take, i fuori campo e i fuori fuoco se non si caricano di quel senso ineluttabile di transito della Storia dal particulare, ancora più vistoso quando si è alla periferia del mondo; non bastano le gag dei due poliziotti della locale preoccupati del prepensionamento e del posto stabile o le sferzate colte della funzionaria dei servizi sociali per iniettare nel dramma quella dose di ironia che aiuterebbe a bilanciarne la narrativa.

Non basta anche se si imprime nella memoria, a poche scene dal finale, lo sguardo in macchina, l’interpellazione di Adi, chiuso in camera dalla madre, un occhio spalancato e uno gonfio pesto, rivolti allo spettatore; uno sguardo che ha come controcampo uno specchio che già si era intravisto, un invito al pubblico a riconoscersi in quel corpo ferito, a quella ferita nei principi basilari della società, un invito a reagire prima che sia troppo tardi. E però il film si arena un po’ lì, a qualche kilometro dall’opera importante che sarebbe potuto essere.