Una sfida vitale alla fissità dell’arte, lo scavalcamento del principio stesso di conclusione dell’immagine, perimetrata nello spazio e nel tempo di un frame che alla fine non può contenere l’insieme dell’esistere. La natura postuma dell’opera che ci è giunta forza fatalmente la percezione dello scarto tra l’immota visione della scena e la mozione dei viventi: sono loro ad appropriarsi del senso, procedendo dal movimento dei cacciatori e dei cani del dipinto di Bruegel sino alla tensione pre-cinematografica degli uccelli e dei cavalli che si animano nella fissità delle foto. 24 Frames, un quadro e 23 fotografie per 24 sequenze di 5 minuti circa: la numerazione sembra imporre il timing di un secondo di proiezione cinematografica (24 fotogrammi al...), in realtà Kiarostami pare piuttosto voler imporre il movimento (suo eterno principio drammatico fondativo, del resto) alla fissità dell’immagine in sé conclusa: lo spazio aperto si offre a perimetri di finestre e balaustre, il moto perpetuo delle onde del mare lambisce le immote vacche, il cielo nuvoloso è tagliato da voli d’uccello. Kiarostami scandisce il rapporto fluido tra la vita e la morte instillando il gioco digitale nella pulsione esistenziale della contemplazione. Si resta sospesi a metà respiro, tra lo slancio spaziale di Muybridge e l’istinto di concedersi il tempo di una vita in still life… (Massimo Causo)
Competitività deriva da competitivo. Che deriva da competere. Da cui deriva anche competente. La rivalità quale strumento di misura per “andare, chiedere insieme” (Treccani). Un antagonismo dialettico. Oltre qualunque salotto o microfono. Senza l’egemonia della notizia in diretta. Una gara dunque di sentimenti. Perché il sentimento della parola e della sua forma, della costruzione della frase e della sua esposizione, è il solo sentimento che può liberarci dal male. Ciò che accade ogni anno all’Università di Saint-Denis è l’unica guerra che abbia senso combattere: l’elezione del miglior oratore del 93 (numero del dipartimento di Seine-Saint-Denis). L’esercizio della retorica diventa così un’arma per sconfiggere la retorica del mondo, e ancor di più l’oscenità della contemporaneità. À voix haute, cioè a voce alta: perché la voce e il linguaggio della voce possano echeggiare e diffondersi, percuotere gli animi ed eccitare i cuori. E anche perché voce e linguaggio non siano soltanto specchio di un pensiero ma tramite di storie. La voce alta quale idea, certo, ma soprattutto idea d’identità, per essere, per esserci, per cambiare le cose. Per abituarsi alla parola ed essere educati alla sua espressione. Documentario del reale? Per carità: documentario della persona! Contro la barbarie, di nuovo, qui e ora, oggi. Può esistere ancora un cinema giusto, legittimo, morale, proprio? Un cinema che sceglie e per il quale la virtù è “andare, chiedere insieme”? Sì. (Pier Maria Bocchi)
Una lunga, lunghissima seduta psicanalitica in forma cinematografica. Al centro un rapporto di coppia che è messo in scena, narrato, sviscerato dalla sola prospettiva maschile. Ma anche un racconto di malattie, ossessioni, alienazioni e disturbi neurologici che non sono fattori esterni o elementi disturbanti della relazione, ma al contrario strutture funzionali, interne e sulle quali il rapporto si regge. La straordinarietà di Ana mon amour è proprio dentro la scelta di non fornire risposte o soluzioni alla crisi della coppia (o alla sua dissoluzione), ma di cercare invece di analizzare (nell’accezione psicanalitica di analisi) minuziosamente tutti gli elementi che compongono la relazione e stanno al suo interno (oltre a lui e lei). Netzer indaga come se stesse approfondendo uno studio clinico. La sua macchina si fissa sui corpi (oltre che sugli intelletti) dei protagonisti, filmandoli da molto vicino, come li stesse a sua volta dissezionando. Il risultato è un film sull’amore dove l’amore da emozione astratta, eterea e spirituale diventa una materia corporea, tattile. E per questo smette di essere quello che è trasformandosi in un oggetto palpabile, concreto e per questo fatalmente frangibile. (Lorenzo Rossi)
La realtà, probabilmente. La realtà bruta, osservata, interrogata, modificata dall'incontro col cinema, che si scioglie e si compie nella realtà (e viceversa). Una famiglia in fuga dal mondo, in un luogo sperduto e selvaggio della Siberia, dove vive di caccia e pesca. Una piccola comunità-clan autarchica, e la sua libertà, messa alla prova dal confronto con “l'altro”: gli odiati vicini di casa, che vivono al di là del fiume, in fuga, isolati, liberi (e spaventati) come loro. Ci sono lunghe sequenze che sono pura antropologia. Ma anche frammenti folgoranti, intuizioni liriche, ellissi abissali. Anche momenti onirici che risultano ipnotici. Ciò che all'inizio sembra documento, quasi inavvertitamente, diventa enigma, thriller, tragedia. Un film stupefacente e inclassificabile. Clément Cogitore rinuncia al controllo sulla materia – pur sapendo che la sua presenza modifica la realtà – approdando alla massima libertà e verità. Le cose avvengono qui, ora, sotto i nostri occhi, attraverso lo sguardo trasparente dei bambini. Per dire qualcosa di essenziale sull'uomo, e sul rapporto-conflitto con gli altri uomini. (Fabrizio Tassi)
Una storia di disgregazione familiare nel Portogallo della crisi (sarà un caso che sono stati i migliori, finora, a raccontare lo sfaldamento economico, sociale e ideale dell’Europa?). Il padre perde il lavoro e passa le giornate nell’inedia, la madre si fa in quattro per mantenere tutti, la figlia adolescente si smarrisce nel suo dolore silenzioso. La famiglia sparisce nello spazio chiuso di un appartamento; la città (Lisbona) di cemento e dalla natura ostile ingoia ogni singola vita; la società non esiste. Eppure da qualche parte il mondo ricomincia: la somma dei vecchi componenti dà un risultato nuovo, i legami non nascono più dal sangue ma dalla vicinanza, la solitudine è libertà. Lo sguardo della Villaverde è raggelante, i colori sono caldi, lo straniamento è totale. Di fronte alla complessità del reale, il cinema si arrende e cerca forme inattese per star dietro al presente. Il finale lungo il fiume Tago, con la macchina da presa che di fronte al destino della figlia avanza e poi si ritrae – pudica e misteriosa come nel finale di Stalker di Tarkovskij – è un’indimenticabile dichiarazione d’impotenza che in realtà racchiude il segreto di una rinascita. (Roberto Manassero)
“Le biblioteche sono i pilastri della nostra democrazia” diceva Toni Morrison. E secondo Fredrick Wiseman la biblioteca è la più democratica di tutte le istituzioni, quella che accetta tutti senza differenza di classe, status, razza e i cui servizi non vengono erogati in cambio di denaro. Democrazia, si sa, è un parola scivolosa eppure è chiarissimo che cosa voglia dire democrazia alla New York Public Library: democrazia è ciò che nomina un processo di inclusione e di messa in discussione delle diseguaglianze sociali che attraversano la società americana. Wiseman, come spesso accade nei suoi film, decide di adottare un approccio corale e collettivo, dove si passa dalle biblioteche dell’alto Harlem, come la Macomb’s Bridge Library, dove le bibliotecarie conoscono i ragazzi per nome, all’enorme e un po’ spersonalizzante sede centrale di Manhattan dove avvengono la maggior parte delle discussioni dell’amministrazione e dove gli “incontri con gli autori” riguardano super-star del mondo della cultura del calibro di Richard Dawkins e Edmund de Waal. Negli ultimi anni il regista americano si è messo a raccontare alcune delle migliori istituzioni dell’America “progressive” e ad adottare un approccio più costruttivo nei confronti delle istituzioni. Fino a fare, come in questo film, delle vere e proprie apologie del lavoro sociale e dell’intelligenza collettiva messi a valore all’interno delle istituzioni pubbliche. (Pietro Bianchi)
Probabilmente tra i film più importanti degli ultimi anni. Un affresco liberissimo, poetico e di enorme intelligenza sulla crisi economica che ha colpito il Portogallo (e tutta Europa, e il resto del mondo), un geniale manifesto anticapitalista in cui il capitalismo viene smascherato con grande semplicità: una catena di montaggio che gira a vuoto, che produce il nulla. Eppure la sua trappola mortifera séguita a funzionare, come un morto vivente che porta in giro la sua carcassa pestilenziale, ma non riesce a essere seppellito, e dunque torna di continuo. Mentre attorno tutto collassa – il lavoro, la vita privata, l’intrapresa artistica, il linguaggio, che si trasforma in azione e pur all’interno di una dialettica fallisce – non resta che rubare il tempo e riprendersi la dignità. Liberare lo spazio nello spazio del lavoro, liberare il tempo nel tempo del lavoro, poiché è il lavoro che si mangia il tempo, lo spazio e la vita. Magari si tratta di una resistenza minima, forse destinata alla sconfitta, preso atto della propria condizione di impotenza, dell’impasse, e del tempo che già si abitua a stare all’erta . Ma quel niente che viene prodotto e liberato è qualcosa. E la lotta, comunque vada a finire, sarà stata gloriosa. (Gloria Zerbinati)
Un musical stonato. Mistico e punk. Un “mistero medievale”, ma elettrico e pure un po' metal (ma anche pop, e rap, e trip-folk). L'infanzia e l'adolescenza di Giovanna d'Arco in un'opera rock - con dentro la parodia di un'opera e la sua trascendenza - che prende in prestito un testo poetico (alto, altissimo) di Charles Péguy. Minimalista nella messinscena, massimalista nell'eversione, solenne e insieme divertita. Un viaggio nell'universo interiore di Giovannina d'Arco, nel suo dialogo ininterrotto con Dio, nella sua volontà di salvare anche i dannati e di scuotere la Francia. Dumont si inventa qualcosa che non esisteva, fuori da ogni buon senso estetico, lavorando con attori non professionisti, usando la musica di Igorr per cantare un inno austero e scatenato alla ragazza che si oppose a qualsiasi autorità pur di diventare se stessa. L'unica risposta possibile – post-cinematografica – al mito dreyeriano (La passione di Giovanna d'Arco). Il film più incredibile dell'anno. Del decennio. Del millennio. (Fabrizio Tassi)
Non poteva che uscire nel 2017 questo biopic di Karl Marx (appuntamento che la distribuzione italiana ha colpevolmente mancato), proprio quando si celebrano i cento anni dalla Rivoluzione d’ottobre. Perché anche se occorsa oltre trent’anni dopo la scomparsa del filosofo di Treviri, l’insurrezione bolscevica è conseguenza diretta del pensiero (per l’appunto) rivoluzionario contenuto nel Manifesto del partito comunista. E sono proprio le idee – più che gli uomini – a stare al centro di Le jeune Karl Marx, cosa che rende il film un biopic atipico, dove ad essere oggetto di biografia sono il pensiero, la visione, l’utopia di un nuovo concetto di futuro, di Storia, di sviluppo sociale. Raoul Peck è bravo a rendere avvincente l’edificazione del pensiero filosofico nella mente e nella coscienza di un Marx ventinovenne (affiancato da Engels che di anni all’epoca del Manifesto ne aveva ventisette). Senza evocare la (facile) sensazione che la Storia, in quell’inverno del 1848, fosse lì ad aspettarlo o che il suo impeto teorico avesse l’afflato della predestinazione. Ma mostrando il sacrificio, la sofferenza fisica e psicologica di chi non immaginava nemmeno lontanamente di poter cambiare il mondo, ma che oggi – cento anni dopo la Rivoluzione d’ottobre e centottanta dopo la pubblicazione del Manifesto – non smettiamo di ricordare che l’ha fatto per davvero. (Lorenzo Rossi)
Dopo un anno passato a Parigi, Amin torna a casa per passare le vacanze estive cullato dal sole occitano di Sète. La prima cosa che vede è una coppia di amici che fa l’amore. Li scruta e poi li segue, interagisce con loro, in una marea montante che coinvolge sempre più personaggi, nel flusso emotivo continuo di una stagione fatta di corpi, sudore, sesso, salsedine. Mektoub, My Love: Canto Uno è la summa del cinema di Kechiche, il suo sbocco naturale: la trama è implosa, ridotta a una ripetizione di situazioni, danze, seduzioni, pranzi e cene, bevute e corteggiamenti. Di vita, insomma. Amin osserva, registra, guarda correre i suoi amici come Kechiche fa con i suoi personaggi. L’immersione nel flusso immaginifico di una gioventù libera e ostentatamente bella è un dolce affogare: ogni sequenza è dilatata a dismisura, liquida e trascinante; lo schermo si riempie di tette e culi, suoni e rumori, ritmi e sole, cibo e alcol. Mektoub (che in arabo significa “destino” ma anche “già scritto”, come a saldare e sospendere la frattura tra passato e futuro in un presente assoluto) è un film di strabiliante tensione, in cui tutto accade mentre non sembra succedere nulla. È un’opera di contemplazione che finisce per includerci, talmente tattile da farci sentire sapori e umori di una giovinezza inafferrabile, refrattaria a ogni paternalismo e dotata di una febbrile vitalità che la rende invincibile, più forte di ogni dolore. Mektoub è un inno nostalgico che esorcizza il languore con una carnalità totalizzante, che fonde anime e corpi, che ride e piange e ama con il potere libero che appartiene solo al grande cinema. (Federico Pedroni)
Nel settembre 2015, nell’est della Turchia, fra le città di Bingöl, Elazığ, Mus, Diyarbakır, Tunceli ed Erzurum, si verificò un’imponente pioggia di meteoriti. Al tempo, la zona era al centro del conflitto fra l’esercito turco e le popolazioni curde, con case e persone bombardate e in regime di legge marziale. Da sempre, poi, quelle terre sono teatro della caccia allo stambecco, lungo pendii brulli e scoscesi dove l’agilità degli animali soccombe alla potenza di fuoco degli uomini. Keltek mette in sequenza i tre momenti (nell’ordine: la caccia, la guerra, la pioggia di stelle) e li sovrappone idealmente. In un bianco e nero sporco, offuscato dalla bassa qualità delle telecamere notturne, dei visori dei mirini dei fucili, della precarietà di ogni ripresa effettuata dentro il teatro della guerra, Meteorlar osserva il fascino spettacolare della distruzione sublimandolo nei volti e nelle parole di chi è abituato a sopravvivere alle bombe. E mentre le meteore solcano il cielo del Kurdistan come i traccianti dei colpi di mortaio, la rappresentazione della guerra entra in una dimensione che riduce la morte e la paura a pure, potentissime visioni. (Roberto Manassero)
Solo nel 2017 il regista sud-coreano Hong Sang-soo ha girato ben tre film: Claire’s Camera, con Isabelle Huppert e Kim Min-hee, The Day After, che era in concorso a Cannes, e sopratuttto questo On the Beach at Night Alone, che ci ha letteralmente rapito quando l’abbiamo visto in concorso alla scorsa Berlinale. Il film, tutto giocato sul punto di vista della sua protagonista femminile Younghee (Kim Min-hee), si chiede: come è possibile rimanere fedeli a un amore che non è stato in grado di durare, quando il mondo, che a partire da quell’incontro aveva preso corpo, è scomparso ed è arrivata la reazione del mondo di prima? E in effetti On the Beach at Night Alone è a tutti gli effetti un film post-apocalittico, dove dopo la fine di un amore vi è un mondo vuoto, freddo, dove vige una luce opaca e dove persino gli amici sembrano invecchiati (“Come ti trovo male Myungsoo, sei sicuro di stare bene?”), dove regna la ripetizione, e dove il proprio desiderio non può più trovare luogo. (Pietro Bianchi)
Tesnota è un film al telescopio. L’oggetto lontano che emana radiazioni luminose è attira l’attenzione di chi guarda quel piccolo lembo di terra che è la Repubblica Autonoma di Kabardino-Balkaria tra la prima e la seconda guerra cecena, è Ilana; il fuoco dove queste radiazioni si concentrano ingrandendo l’immagine e concentrando lo sguardo è il punto in cui sta, perfetta, la macchina da presa di Kantemir Balagov autore di questo folgorante esordio. Come attraverso un telescopio in 4:3 lo sguardo del giovanissimo allievo di Sokurov è distante ma precisissimo. Osserva attento ma estraneo un punto specifico della Storia e della Terra che quasi nessuno conosce lasciando che prenda, sullo schermo e davanti allo spettatore, il proprio spazio e la propria forma. La violenza, il dolore, le convenzioni, ma anche il sesso, l’amore, l’affetto, le differenze etniche e religiose, la droga, la musica, tutto affiora con implacabile naturalezza e si dà attraverso i piccoli dettagli (i tagli di luce, le facce dei protagonisti, i loro vestiti, le auto e le pareti delle loro case) che suggeriscono la statura di un grande talento. (Chiara Borroni)
88 anni, ma rimane la più giovane, dentro. Il cinema di Agnès Varda è sempre una boccata d’aria fresca, di libertà e leggerezza. Un antidoto. Contro gli esteti mortiferi, i moralisti d’assalto, gli “autoroni”, gli impegnati, quelli che si prendono troppo sul serio. In Visages Villages se ne va in giro per la Francia con JR, “fotografo di strada”, incontra persone, racconta storie, e crea insieme a lui immagini gigantesche che diventano murales. Cinema nomade e vivo. Che pratica l’arte dell’improvvisazione con sublime semplicità. Si parla di gente che resiste. Di luoghi in cui esistono ancora comunità. Si ride e si piange, si scherza e si cantano canzoni. Con la grazia di chi sa che il cinema è anche un modo di essere (di “stare con”) oltre che di guardare. Finale con evocazione di Godard. Che godardeggia, fantasmatico, lasciando la scena alla Varda. Alla vita. (Fabrizio Tassi)
La peggior punizione per un mirón è quella di non vedere nulla. Don Diego de Zama è un guardone – così lo apostrofano deridendolo le donne che lo scorgono spiarle dietro le dune nella sequenza di apertura del film – che non riuscirà a vedere nulla per tutta la vita. Il personaggio che riporta al cinema Lucrecia Martel dopo quasi dieci anni dal suo ultimo film è il protagonista di un romanzo chiave della letteratura argentina del Novecento, un uomo di potere impotente, respinto e respingente. Zama è un voyeur cieco, un conquistador incatenato, un vizioso castrato e, per questo, un corpo destinato a soccombere al proprio destino. Nella maestosa e impeccabile messa in scena di Martel, Zama è infatti continuamente fatto a pezzi dalla costruzione delle inquadrature, continuamente attirato verso un fuori campo dove la storia si compie attraverso suoni acusmatici che portano lo spettatore nel territorio del non visibile e Zama in quello del non vivibile. L’uomo aspetta infatti qualche cosa che gli è precluso, la possibilità stessa dell’esistere. (Chiara Borroni)