Gruppo di famiglia in un interno. Ermetico. Fuori la luce del sole pare accecante. Dentro si anela alla libertà ma si giunge alla progressiva estinzione. Nella periferia di Detroit, poco prima della metà degli anni ’70, il sogno luminoso di un domani si scontra con un’educazione intransigente e timorosa che quello stesso sole possa impadronirsi di cinque splendide ragazze. Complice Eugenides, il suo romanzo e il suo passato, Sofia dipinge con colori autunnali un percorso di (de)formazione che frana su tutti gli ostacoli incontrati lungo il cammino dai protagonisti. Giocando a ribaltarne i termini, sovrapponendo le cause sugli effetti, occultando la natura del trauma per illudersi sulla sua elaborazione («Non preoccuparti, papà, hanno tolto la ringhiera») e tramutando in incubo, come aveva già fatto il De Palma di Carrie, il ballo di fine anno, unica vera soglia in cui il cinema americano promuove i suoi adolescenti verso il futuro. Una storia di fantasmi suburbani che scontano la loro morte vivendo tra quattro mura, mentre il resto del mondo, assiepato all’esterno, osserva, sogna, fantastica e ricorda quasi con nostalgia, venticinque anni dopo, quella che è stata l’elegia di un singolo attimo in cui si è stati farfalle. E poi più niente. [giampiero frasca]
C’è una scena, verso la fine di Lost in translation, in cui Bob e Charlotte finalmente finiscono a letto. Non fanno l’amore, però: parlano. Di aspirazioni e di desideri, del tempo che passa e offusca le aspettative e i sogni, del futuro e del passato. È una grande scena d’amore che culmina in un microscopico, precisissimo gesto: dopo un’esitazione, Bob sfiora il piede di Charlotte. È un momento magico, sospeso, in cui si concentra tutto il cinema di Sofia Coppola. In cui il mondo maschile e femminile – adulto e ragazza – trovano un’intesa. L’idea della crescita (e della maturità) come salto nel vuoto, del sesso come minaccia a un’indefinita purezza e al tempo stesso baratro a cui tendere (la stessa idea c’era in declinazioni diverse nel Giardino delle vergini suicide e ci sarà di nuovo in Marie Antoinette e in L’inganno), informa il cinema di Coppola e ne costituisce il senso: un’immagine romantica che si distilla in un contatto apparentemente asessuato ma che invece sa rendere erotico un momento di intimità semplice e quotidiana. Sappiamo già dove andremo a parare, a cogliere con fatalismo le divergenze del sentire tra uomini e donne: Bob finirà a letto per noia e autocommiserazione con una cantante sconosciuta, Charlotte aprirà al mondo i suoi occhi/finestra, affrontando il futuro con creativa disillusione. Sono mondi forse irriducibili, destinati a gravitare a distanza, ma sfido chiunque a non commuoversi – a non sciogliere la briglia di sentimenti e lacrime – in quell’abbraccio finale, consumato furtivamente in mezzo a una strada, con la folla distante che ci sfiora senza toccarci. [federico pedroni]
La Versailles di Sofia Coppola è la perfetta sineddoche dello “stato di natura” secondo Rousseau. E Marie Antoinette la vittima per eccellenza di una condizione intrinsecamente felice ma corrotta dalla costituzione di un contratto sociale. Catapultata in una condizione nuova, costretta a perdere la naturale innocenza, la regina vive l'oppressione di un sistema replicato nell'abbondanza di un universo tanto sovrappopolato quanto vuoto. Una condizione ancora più significativa quando sostituita dalla quotidianità di un idillio pastorale capace di ridonare a Marie Antoinette la pienezza d'animo abbandonata in giovane età. Una breve parentesi bucolica che si chiude con l'amaro ritorno alla trappola di Versailles, emblema di una routine monotona ed esasperata. A un livello più alto, la bolla sottile che racchiude l'universo della reggia è destinata a scoppiare nell'impatto con la Storia, in quell'ultima inquadratura della stanza coniugale distrutta… La storia di Marie Antoinette rimane intatta, custodita in un presente eterno suggellato nel nuovo viaggio, ancora una volta obbligato e ancora una volta verso l'ignoto, che è perfetta rima del suo inizio, ritratto senza tempo della condizione umana. [carlotta po]
Da qualche parte. È questa la questione che sta al centro di tutto il cinema di Sofia Coppola, un cinema fatto di persone che non sanno bene dove andare, o non possono andare da nessuna parte, che non hanno un vero e proprio orizzonte. È quello che cerca, senza saperlo, anche Johnny Marco. Lo dice esplicitamente la circolarità che unisce l’inizio con la fine, la corrispondenza del luogo – il deserto – l’opposizione dell’azione – l’immobilità vs. la camminata. Johnny non fa altro che ciondolare, quasi sempre fuori luogo in uno spazio al quale appartiene, ma che non gli è mai proprio. Deve stare su un’asse appoggiata per terra per sembrare quel che non è, alto. Scopa a caso, fuori campo, e quando è inquadrato sta adagiato sul letto davanti alle spogliarelliste. Non si muove mai davvero, immobilizzato dal gesso e dalla vita, per non accelerare lo sprofondamento nelle sabbie mobili. Non si muove, lo muove ciò che lo circonda, una specie di palude dalla quale forse solo la figlia Cleo, ristabilendo i ruoli, lo può tirare fuori suggerendogli chi essere invece di chi interpretare. Solo con lei Johnny riesce ad azzardare qualche piccolo movimento. Per gioco. Il gioco che lo può salvare dall’appucundria, avrebbe detto Pino Daniele. [chiara borroni]
Bling Ring è un film svogliato, piatto, senza profondità. Un film pensato e realizzato a immagine e somiglianza della società di cui parla. Il mondo delle star di Hollywood, che da profani crediamo inaccessibile, è in realtà lì, alla portata di tutti, sullo schermo e su Google, con le porte aperte, le chiavi sotto lo zerbino, i vetri che mettono in vista la ricchezza. Los Angeles, la città più filmata del mondo, è ripresa come una vetrina orizzontale, infinita, immersa in una luce biancastra che riflette e nullifica. Tutti la guardano, poiché esiste per essere guardata, e nessuno la vede. Come il video di sorveglianza dell’incipit, che dovrebbe dissuadere i protagonisti dallo svaligiare le case dei vip, o convincere tutti della loro colpevolezza, e invece non conta nulla, riprende il vuoto. In Bling Ring la metropoli vale quanto la “stalla più fotografata d’America” di Rumore bianco, un luogo, scrive De Lillo, che tutti fotografano, tutti guardano e nessuno ovviamente vede. «Trovarsi qui è una sorta di resa spirituale», dice un personaggio del romanzo: «vediamo solamente quello che vedono gli altri». [roberto manassero]