L’uomo dei cinque palloni (Break-up) era un film extraterritoriale nel 1965 e sembra esserlo ancora oggi, a distanza di più di cinquant’anni.
Il montaggio iniziale schizofrenico e velocissimo ci introduce nella fabbrica in cui lavora Mario Fuggetta – un Mastroianni mai così fragile e irrequieto – con la voce fuori campo dell’attore che ripete ossessivamente i numeri delle macchine di produzione. Prime battute decisive, perché delineano la semantica del film inquadrando la poetica che Marco Ferreri avrebbe poi reso più definita nelle opere successive: c’è la pulsione per l’oggetto-feticcio; le smanie (e manie) dell’uomo post-boom economico; l’attenzione per il sesso come dimensione conoscitiva autonoma e allusiva. E c’è una figura femminile che, come in L’ape regina, seppure in maniera meno evidente, fa da contrappeso all’uomo che lentamente si sgretola, perdendo ogni suo appiglio.
In L’uomo dei cinque palloni i dialoghi e gli scambi di battute sono al limite del comico e dominati dall’assurdità del quotidiano in cui si muovono i personaggi: non c’è una direzione né un obiettivo drammaturgico – se non quello di gonfiare quanto più è possibile il palloncino – e sia Mario che Giovanna/Catherine Spaak paiono caratterizzati da quell’horror vacui tipico di quasi tutti i protagonisti ferreriani.
Pensiamo all’inizio di Dillinger è morto (1968) quando l’alienato ingegnere-designer prova delle maschere antigas e ascolta annoiato un amico che legge un brano sulla maschera come simbolo della spersonalizzazione del mondo contemporaneo; o all’impassibilità con cui viene vissuta l’apocalisse e il post-apocalisse da Dora e Cino in Il seme dell’uomo del 1969 e in cui circostanze narrative e storiche non possono non coincidere o comunque riflettersi. Non per caso nel film con protagonista Anne Wiazemsky e nel notissimo La grande abbuffata (1973), Ferreri sembra porsi la medesima domanda, vale a dire se far sì che il seme dell’uomo germogli di nuovo, decretando l’inevitabile ritorno dell’uguale, della reificazione, del consumismo, o se far esplodere tutto: mangiare fino a morirne, come vediamo anche in una delle ultime scene di L’uomo dei cinque palloni quando Mario si reca in una rosticceria e vede ogni cliente mangiare compulsivamente. «Mangiano per dimenticare» gli diceva il commesso.
L’uomo dei cinque palloni è già quasi il Ferreri dell’astrazione che troveremo nei film pocanzi citati, ma anche in Il futuro è donna (1984) e I Love You (1986) in cui carica visuale minimalista e dimensione grottesca e ironica collimano perfettamente. Il regista fa un utilizzo efficacissimo della spazialità, dalla claustrofobia dei vani domestici alle strade di una Milano che sembra sospesa in stazioni temporali parallele.
Alberto Scandola lo definiva un «ultracorpo, dove si depositano gli strati del tempo», anche cinematografico, aggiungeremmo, considerando l’unica a sequenza a colori in cui convivono Fellini e l’Adriane Lyne di Nove settimane e mezzo: i confini di architetture e persone sono resi indistinti dal bianco e nero della fotografia, quasi a simulare una possibile città del futuro in cui l’uomo si sente smarrito. Un altro aspetto fondamentale della filmografia di Ferreri sarà infatti quello del rapporto tra uomo e ambiente e della conseguente emersione di un vuoto interiore e nello stesso tempo spaziale. L’epopea consumistica degli anni Sessanta viene messa in ridicolo attraverso la lente dell’oggetto-feticcio dove l’osservazione diventa conglobante ed invasiva fino a penetrare irreversibilmente l’intimità del soggetto.
Le immagini di L’uomo dei cinque palloni generano una sospensione di senso dove oggi è più “facile” rivedersi, anche noi, come Mastroianni, persi in un mondo di immagini e icone.