Frank Tuttle e Stuart Heisler, rispettivamente classe 1892 e 1896, attivissimi nella Hollywood dagli anni Venti ai Cinquanta-Sessanta, entrambi alla Paramount, ma marginali, forse perché “scomodi” (esplicitamente Tuttle, che incappò anche nelle indagini e negli interrogatori della Commissione per le attività antiamericane del senatore McCarthy e fu costretto, per lavorare, a stabilirsi in Europa) e di spirito
indipendente. Amati dai giovani dei Cahiers ai tempi della politique des auteurs (ma Heisler era molto apprezzato anche da Bertrand Tavernier, fazione Positif), poco considerati dalla critica successiva, quasi dimenticati, decisamente sottovalutati. “Artigiani”, certo; ma artigiani con uno stile e un mondo da raccontare. Tuttle e Heisler sono solo due delle tante riscoperte e suggestioni offerte dalla XXXIV edizione del Cinema Ritrovato (in corso a Bologna fino al 31 agosto), che si svolge coraggiosamente “in presenza” e scommette non solo sull’enorme fascino delle proiezioni notturne e spesso musicali di Piazza Maggiore, ma anche sulla voglia del pubblico di tornare al
cinema anche per vedere dei film d’epoca, magari sconosciuti, perduti o, come nel caso dei due registi americani, trascurati. Oggetti misteriosi e preziosi, come le due versioni del romanzo del 1931 di Dashiell Hammett La chiave di vetro: la prima, del 1935, di Tuttle, la seconda, del 1942, di Heisler. Trama quasi identica (a parte uno spostamento del love interest nel finale), che fruga nelle pieghe della corruzione politica senza preoccuparsi di identificare degli “innocenti”, ma solo i più o meno corrotti. Più o meno morali e leali (anche se si tratta di una concezione del tutto personale di moralità e di lealtà), in un mondo che lascia poche vie di uscita, tra stampa asservita, politici e businessmen maneggioni, malfattori, giocatori, biscazzieri, gangster e tirapiedi di vario cabotaggio.
Hammett, lo sappiamo, era davvero un duro, aveva lavorato all’agenzia investigativa Pinkerton e tendeva ad attribuire ai suoi “eroi” certe sue caratteristiche, il sense of humor, la disillusione che può approdare al cinismo, l’accurata eleganza che sfiorava il dandismo. Infatti, il suo personaggio più celebre, Sam Spade, è un dandy, dal pugno facile e la battuta tagliente. Ancora di più lo è Ed Beaumont, il protagonista di La chiave di vetro, giocatore d’azzardo, amico e aiutante di Paul Madvig, un uomo d’affari collegato con malavita e politica. Beaumont veste impeccabilmente, sa scegliere i calzini e raddrizzare le cravatte di Madvig, scopre intrighi e assassini, picchia sodo e piace alle ragazze. Entrambi i film sono veloci, senza peli sulla lingua, sospesi tra gangster movie e noir: in questo senso, il film di Tuttle è anticipatore, con alcune scene di grande suggestione (il primo piano della lampada che oscilla durante un omicidio) e un antieroe che prelude alla secchezza di Bogart (George Raft, in quella che è stata probabilmente la sua parte migliore).
Sette anni dopo, il remake di Heisler elegge a protagonista Alan Ladd (lanciato pochi mesi prima da un film di Tuttle, Il fuorilegge, da Una pistola in vendita di Graham Greene), meno duro di Raft e, sotto sotto, meno cinico e senza speranza. Accanto a lui, acquista importanza il personaggio di Veronica Lake, irresistibile dark lady. Più laccato e meno torbido, il film di Heisler è meno aspro e, in qualche maniera, “rabbonito” rispetto a quello di Tuttle, che probabilmente godeva ancora di strascichi di libertà pre-Codice Hays. Solo due esemplari della ricca produzione di due registi che sapevano lavorare tra le pieghe dei generi per raccontare un mondo tutt’altro che pacificato.