Forse il più problematico dei divi della Hollywood classica. Anzi: imperscrutabile, per il contrasto tra l'innocenza di quegli occhi azzurri e di quel sorriso da ragazzino e certi scatti nervosi della figura allampanata e certi sguardi gelidi, quando non allucinati.
Meno lineare di James Stewart e John Wayne (dei quali - soprattutto del primo - era molto amico, nonostante le contrastanti fedi politiche, Fonda democratico, Stewart e Wayne repubblicani), più tenebroso di Gary Cooper, al quale lo accomunava la slanciata bellezza da all-American boy del Midwest.
Alexander Horwath, nel catalogo del Cinema Ritrovato, riporta la descrizione di John Steinbeck: «Hank mi appare come un uomo espansivo ma irraggiungibile, mite ma capace di una violenza repentina, selvaggia e pericolosa, intransigente con gli altri ma in egual misura con sé stesso, ingabbiato e insofferente alle sbarre ma intimidito dalla luce. Sul suo volto si danno battaglia gli opposti».
I nomi di John Steinbeck e Henry Fonda s'incrociano nel capolavoro del 1940 di John Ford, Furore, uno dei titoli riproposti dalla XXXIV edizione della rassegna bolognese, nella sezione Henry Fonda for President. E quello di Tom Joad, mite agricoltore sfrattato dalla sua terra dagli speculatori della Grande Depressione, pacifico ma talvolta esplosivo e mai rassegnato, è uno dei primi personaggi chiave della lunga carriera dell'attore, che negli anni 30 (a parte il bandito Frank James in Jess il bandito di Henry King e l'innocente condannato per omicidio in Sono innocente di Fritz Lang) era stato soprattutto eroe romantico, magari innamorato della ragazza sbagliata (come la Bette Davis di Figlia del vento di William Wyler).
Ma già nel 39 John Ford gli aveva cucito addosso il primo dei suoi ruoli "presidenziali": quello del giovane avvocato Abraham Lincoln, dalle gambe troppo lunghe per il mulo sul quale arriva a Springfiled, nell'Illinois, per aprire il suo studio legale. Non ancora presidente, un Lincoln campagnolo e talvolta maldestro, deciso ma meno tormentato degli uomini di stato, degli sceriffi, degli ufficiali cui Fonda dà volto e corpo in seguito. Nella sua introduzione, Horwath identifica tre fasi nella sua carriera (usando a questo scopo i titoli originali di tre dei suoi film): il Best Man degli anni 30 (l'onesto uomo comune che si barcamena nei disastri della Storia o nei malintesi dell'amore), il Wrong Man degli anni 40 (quando il suo personaggio s'incupisce e affronta dilemmi morali e trappole del destino), il Man with No Name nei decenni successivi (quando l'età lo conduce al potere e al cinismo e gli ideali americani sfumano fino a frantumarsi).
Ma le fisionomie si intrecciano e il Best Man, quello dagli occhi ingenui, continua a trapelare in certe commedie, come l'irresistibile Lady Eva di Preston Sturges o il meno riuscito La nave matta di Mr. Roberts (dalla commedia nella quale l'attore aveva trionfato a Broadway nel 48), o nel woman's film Daisy Kenyon di Otto Preminger, dove un Fonda apparentemente pacato (ma con un passato traumatico) contende al duro Dana Andrews l'amore della donna in carriera Joan Crawford, uno dei film meno noti e più ambigui presentati a Bologna. E se la maldestrezza campagnola dello sceriffo Wyatt Earp dell'intramontabile Sfida infernale di Ford cela già la decisione aggressiva del Man with No Name (del pistolero infallibile, del giustiziere), non c'è dubbio che il colonnello Owen Thursday di Il massacro di Fort Apache di Ford, rigido e frustrato, sia un Wrong Man al negativo, l'uomo sbagliato al posto sbagliato, divorato dall'insicurezza. In realtà, le tre personalità da sempre sfumano una nell'altra, al di là del cliché del giovanotto romantico che gli fu appiccicato a inizio carriera.
Se n'erano accorti Steinbeck e certamente John Ford, che gli offrì personaggi memorabili e del quale fu molto amico, finché non litigarono sul set di Mr. Roberts. E se si restava a volte spiazzati dal furore che emanava all'improvviso dalla sua persona, non si riusciva a volergli male, nemmeno quando interpretava puri bastardi, come il bounty killer di C'era una volta il West di Sergio Leone o l'ex sceriffo di Uomini e cobra di Joseph Mankiewicz. Non si poteva voler male a quel ragazzone che aveva ballato il valzer con Clementine o con Ma' Joad. I film di Leone e di Makiewicz sono entrambi degli anni 70, quando si era già perfettamente delineato il suo aplomb "presidenziale": fu, nel 59, candidato alla carica di Segretario di Stato in Tempesta su Washington, ritratto al vetriolo di Otto Preminger dell'ambiente politico americano; nel 64, ex Segretario di Stato in corsa per la candidatura alla Casa Bianca in L'amaro sapore del potere di Franklin Schaffner; e finalmente, nel 64, Presidente degli Stati Uniti, in A prova di errore, secco esemplare di fantapolitica di Sidney Lumet. Ma, a quel punto, il mondo stava andando in pezzi, l'Atomica era stata sganciata (appunto, per errore) su Mosca e il Presidente doveva prendere una decisione fatale per riuscire a impedire la distruzione totale: Fonda sta chiuso in una stanza, attaccato al telefono, con la sua ombra che si proietta sul muro, una voce di civile angoscia e non di stolido incitamento.
Come dovrebbe essere un Presidente, qualcuno che, pur tra le sue battaglie interiori, ha a cuore la vita. Pre-kennedyano (l'attore kennedyano per eccellenza è stato Robert Redford), Henry Fonda forse incarnava davvero il perfetto capo di stato americano, l'idealista che sa anche sgarrare, pungo di ferro in guanto di velluto, il volto umano (o la maschera umana) del potere. Dopo di lui (e dopo i Kennedy) andò un po' tutto in malora, la politica s'infiammò per un attimo alle parole di Hanoi Jane (sua figlia, pasionaria in Vietnam) e poi rovinò sotto il peso della Storia. Eppure, anche per capire e aprrezzare il repubblicano Clint Eastwood, bisogna ritornare al democratico Henry Fonda.