«My name is Orson Welles»: un marchio di fabbrica sempre ribadito, modulato dalla sua voce inconfondibile, profonda fino a diventare straziata, allenata da migliaia di esibizioni sul palcoscenico, davanti alla macchina da presa o alla telecamera e soprattutto ai microfoni della radio, che era una sua grande passione, con la quale sopravvisse durante gli anni Trenta del teatro militante a New York e spesso nei decenni successivi dei vagabondaggi tra gli States e l'Europa, sempre in cerca di soldi per finanziare i propri film.
Il diritto a un'identità dirompente, a un'autonomia incrollabile, a una firma inalienabile, proprio lui, che è stato tante volte espropriato da produttori sbrigativi, che approfittavano delle sue lunghe assenze per accorciare, aggiungere, rimontare. Eppure, ogni film nel quale, anche solo di passaggio, è coinvolto Orson Welles finisce per avere qualcosa di "wellesiano": basti pensare all'equivoco della sua influenza sul Terzo uomo (che è invece un tipico film della coppia Carold Reed-Graham Greene, con i grandangoli e i chiaroscuri insistiti del primo e l'inquieta ambiguità morale del secondo, e per il quale Welles inventò soltanto il breve monologo sull'Italia dei Borgia e la Svizzera degli orologi a cucù), o a come mise nel sacco i giovani leoni Paul Newman e Joanne Woodward in La lunga etsate calda di Martin Ritt, surclassandone le moderne sottigliezze Actors' Studio con il classico sanguigno furore del vecchio tiranno shakespeariano Will Varner, o alla pacatezza sorniona con cui si adattò, lui così barocco, al pauperismo pasoliniano nella Ricotta, o persino alle apparizioni giocose in veste di mago e prestigiatore nei film degli anni Quaranta zeppi di star destinati a tenere alto il morale delle truppe (impagabile il duetto con Marlene Dietrich segata in due in La nave della morte di Eddie Sutherland).
Mago lo fu davvero. La sera di Halloween del 1938 terrorizzò l'America con un adattamento radiofonico di La guerra dei mondi di H. G. Wells che è ancora oggi di un'efficacia sconvolgente (e anche questo era "firmato" in testa e in coda, ma moltissimi ascoltatori non ci badarono e furono talmente soggiogati dalla tramissione che il panico dilagò). Tre anni dopo, a venticinque anni, diresse non solo un'opera prima inarrivabile, ma quello che è considerato "il film più bello della storia del cinema" e che, come ha detto François Truffaut, ha scatenato più vocazioni alla regia: Quarto potere, caleidoscopico puzzle nel quale mescola le carte della narrazione in un andirivieni incessante e non cronologico, perfeziona (con il direttore della fotografia Gregg Toland) la profondità di campo e inventa il piano sequenza. Il film che inaugura clamorosamente la modernità.
Poi, in ogni senso bulimico, si lasciò coinvolgere in troppi progetti contemporaneamente, perse il controllo di alcuni film, cominciò a bisticciare con Hollywood, senza che tutto ciò gli impedisse di realizzare L'orgoglio degli Amberson, che certamente non è del tutto come lui l'aveva immaginato, ma che resta un ritratto appuntito e dolente di un mondo sospeso tra due epoche (e ha certamente influenzato L'età dell'innocenza di Scorsese). Andava, veniva, lavorava a più progetti, scriveva, recitava in teatro-radio-tv-cinema (ha interpretato più di cento film), inseguiva e seduceva finanziatori, spettatori, donne (tre matrimoni, la lunga convivenza con l'ultima compagna, più tutto il resto, compreso il pasticcio delle tre Desdemona del suo Otello, con le attrici sostituite in corso d'opera anche a causa di deragliamenti sentimentali).
In più di quarant'anni di carriera diresse solo 14 film, pochi, pochissimi per un genio debordante come il suo. Ma di questi, due sono inesauribile fonte di ispirazione (L'orgoglio degli Amberson e La signora di Shanghai, forse il film più citato, tra acquario e specchi, della storia del cinema), due (Mr Arkadin e Il processo) hanno l'imperfezione del genio, due (Storia immortale e F come falso) sono disarmanti confessioni di poetica e di vita.
Tre, infine, sono indiscussi capolavori: Quarto potere - anno uno del cinema moderno -, L'infernale Quinlan - porta d'ingresso nel cinema del dubbio, dell'ambiguità, dell'imperfezione -, Falstaff - il più bel film shakespeariano di sempre, un trionfo di malinconia, passione per la vita, entusiasmo, tradimento, dolore, volgarità, libertà, modernità. «Non ti conosco, vecchio. Inginocchiati e prega», dice il principe Hal, diventato re Enrico V, al suo antico maestro di baldorie e scorribande, disconoscendo così non solo la propria giovinezza, ma un'intera parte della propria natura. E Falstaff, deluso e dolente, se ne va, ma non s'inginocchia e non prega. Come non s'inginocchiò mai Welles, libero, "un cane sciolto" (come si definì lui stesso nel bellissimo discorso con cui accettò nel 1975 il premio alla carriera conferitogli dall'American Film Insitute), un pazzo che usava il proprio lavoro per finanziare il proprio lavoro.
E poi, spezzoni, sequenze, film incompiuti, abbozzi, sceneggiature, idee e progetti mai realizzat: un cumulo di materiali che ricorda il deposito di Xanadu nel quale si conclude (profeticamente) Quarto potere, tutta la materia della quale è fatta una personalità come la sua, bigger than life, amabile ed enorme, inventiva e dispersiva, dove "Rosebud" è il tassello piccolissimo (e talmente elementare da sfuggire a chiunque) che riporta all'origine di tutto e The Other Side of the Wind è la fisionomia definitiva, inevitabilmente incompiuta e inafferrabile.
Orson Welles nacque il 6 maggio del 1915 e morì il 10 ottobre del 1985: un centenario e un trentennale per il gigante più misterioso e generoso che abbia mai attraversato il cinema.