All’indomani della presentazione in concorso di Sacro GRA abbiamo incontrato Gianfranco Rosi per fargli qualche domanda sul film. Ne è venuta fuori un’intervista densa e a tratti quasi intima, in cui il regista ha ammesso di aver detto “delle cose che non avevo mai detto a nessuno”. Sacro GRA è infatti un progetto dalle tante facce, molto interessante da approfondire perché estremamente stratificato nelle sue intuizioni sia visive che intellettuali. La gestazione è durata tre anni, nei quali Rosi ha fatto molta ricerca sui luoghi e ha coinvolto esperti come l’urbanista Nicolò Bassetti o il recentemente scomparso Renato Nicolini, a cui il film è dedicato e il cui libro Una macchina celibe costituisce un po’ la guida spirituale del film.
Per introdurci al progetto, ci potresti parlare del coinvolgimento nel film delle figure di Nicolò Bassetti e di Renato Nicolini? Che ruolo hanno avuto in Sacro GRA?
Il progetto mi è stato letteralmente consegnato dalle mani di Nicolò. Io non avevo avuto nessun rapporto con il Raccordo se non come luogo che mi portava a casa. E Roma non è nemmeno la mia città. Nicolò è un urbanista che per capire il Raccordo l’ha percorso interamente a piedi lungo venti giorni. Ieri ho detto tre anni, ma ad averci impiegato tre anni non è lui, ma io per fare il film! [ride]. E' la prima volta che faccio un film che non viene da me. I miei altri lavori nascevano sempre da impatti emotivi molto forti, incontri, innamoramenti.
Il luogo è un pretesto per altre storie, e infatti il primo anno l’ho passato a far sì che il film diventasse mio e che potessi capire quale era il punto di partenza e quale il fulcro. Nicolò mi ha consegnato questo territorio che ho cercato di svuotare, all’inizio, della sua forza: svuotarlo da tutto per poi trovare delle collocazioni per i personaggi e per le storie che pian piano sono riuscito a fare mie. Alcuni personaggi me li aveva indicati lui, altri invece li ho incontrati io lungo il progetto.
Quindi alcuni personaggi sono stati “scoperti” da Nicolò?
Sì. Ad esempio l’anguillaro o il palmologo. Li aveva incontrati nel giro a piedi e mi aveva detto “devi andare assolutamente lì”.
Bassetti aveva fatto una sorta di etnografia.
Sì, una specie di psico-geografia del Raccordo: lui l’ha descritto come un luogo con dei quartieri, dei personaggi, etc. Ha fatto una mappatura. Io invece ho fatto il lavoro inverso, ho cercato di “de-mappizzare” e di togliere questa forte identità, per renderlo un’altra cosa, trasformarlo in qualcosa d’altro.
Con i personaggi che hai trovato e hai ereditato da Nicolò che tipo di lavoro hai fatto? Perché a qualcuno è sembrata una vera e propria “messa in scena”.
Una messa in scena nel senso di Eschilo, di un attore che recita non sapendo di recitare, che è il massimo per un attore. La messa in scena si è svolta col tempo. Questo film è stato scritto girandolo, perché non ho mai scritto una riga. È un film che ha preso forma con gli anni. Il primo non ho girato niente. Giravo letteralmente attorno al Raccordo. Poi ogni tanto decidevo di prendere un’uscita e scovarci delle storie. Quindi di messa in scena non c’è nulla se non la conoscenza dei personaggi. Quando tu conosci bene i personaggi sai anche quello che farebbero in una certa situazione, quindi anticipi delle cose. Un esempio è quando ho dato il giornale all’anguillaro. Quel giorno esce su Repubblica un articolo sulle anguille, lo chiamo e gli dico “devo venire da te”. Vado da lui, so che ogni pomeriggio, finita la pesca, si mette lì con lei che cuce. Metto lì la macchina e gli dico “parlate normalmente”, poi c’è la luce giusta, la situazione giusta, gli do il giornale e gli dico “ma non hai visto questo articolo?” e inizia a leggere. “Puoi leggere ad alta voce e commentarlo?”.. Boom, e inizia! E' una messa in scena della regia del documentario. Non è che facciamo il cinema con le camere di sorveglianza!
Rispetto a Below Sea Level ci sono molte differenze.
In Below Sea Level c’è una storia, una trama, una drammaturgia dei personaggi. La sfida di questo film per me è stata quella di chiudere la porta anziché aprirla, quindi dare meno informazioni possibili sul luogo. Perché tu del Raccordo non sai nulla. Se un giapponese vede questo film si spiazza, ed è quello che voglio: il senso di spiazzamento. È così che il film può essere elevato a un’universalità, a un luogo ideale.
Sembra che il Raccordo diventi una trama invisibile.
Infatti il film inizia dicendo che il Raccordo circonda Roma come un anello di Saturno. C’è questo inizio sfocato e poi “boom!” arriva la realtà: l’ambulanza è come una navicella che gira attorno a questo anello.
In Below Sea Level si intravvede un senso di comunità e le trame si intrecciano, qui invece sono tutte separate.
In Below Sea Level c’è un fil rouge. I personaggi di Sacro GRA invece si sono incontrati per la prima volta ieri e per la prima volta hanno visto il film tutti insieme. Questo dà l’idea di quanto le loro storie siano separate. Avrei potuto fare la furberia di farli interagire, ma sarebbe stato un pretesto stupido.
Molti dicono che un luogo come un’autostrada sia per eccellenza un non-luogo. Sembra che tu abbia provato a ridargli un senso.
Non credo alla parola non-luogo. Non esistono i non-luoghi. Il raccordo è un luogo estremamente collocato fisicamente, ma si tratta di periferie – se così possiamo chiamarle – che non hanno un’identità, perché dall’alto sembrano tutte lo stesso quartiere. Hanno tutte edifici abusivi, sono senza scuole, senza infrastrutture, senza autobus, le casette costruite negli anni Sessanta sono tutte uguali, etc.. Infatti quella che si vede dall’alto è un’ipotetica inquadrature di tutte le casette. Io ho fatto un giro del Raccordo prima in elicottero e poi con una mongolfiera, e ho scelto dei punti dall’alto perché diventassero degli emblemi, dei simboli – la campagna, la citta, etc. –. Nicolini mi ha fatto capire, in questo giro fatto insieme, che il Raccordo era un luogo che ti portava all’astrazione e alle libere associazioni. Ecco, lui doveva essere il filo rosso del film, poi purtroppo si è ammalato ed è scomparso e infatti il film è dedicato a lui. Lui era quello che mi aveva detto: “adesso questo cerchio lo devi aprire e ne devi fare una rete infinita”. E lì ho capito il film.
Quando eravamo al montaggio una persona mi chiede: “mi fai vedere come vedi il raccordo?” E io gli ho detto, “io lo vedo così” [prende un foglio di carta e inizia a disegnare]: è un’ autostrada e poi c’è un ponte, c’è un fiume, ci sono delle case di un villaggio, c’è un cimitero dall’altra parte, qui c’è un ospedale [continuando a disegnare sul foglio] e su c’è un castello con un principe che domina [ride], poi qui c’è un anguillaro e ci sono dei palazzi nuovi rispetto a quelli del villaggio. Poi c’è questa ambulanza che va avanti e indietro lungo il Raccordo facendo una U. Questo è il film.
Infatti ti chiedevo di Nicolini anche per capire quale era stato il suo contributo intellettuale all’idea del film.
Beh, un film deve partire da un’idea molto forte e l’idea di “aprire il cerchio” è stata sua.
Come ti sei trovato da non romano a fare un film su Roma, in un ambiente come quello del cinema che è tra i più romani in assoluto?
In realtà è come se fossi stato portato in un luogo molto lontano da Roma. Tant’è vero che sono andato ad abitare su al castello per tanto tempo. Ho cominciato lì perché era un “Bed & Brefas” [storpia il nome come fa il personaggio del film] vicino al Raccordo. Da lì partivo, tornavo… Ho portato lì gli studenti della scuola svizzera dove insegno. Era anche un periodo in cui mi stavo separando ed era come andare via da tutto; non avevo nemmeno casa. Ogni tanto dicevo “domani vado a Roma”, che era come prendere l’aereo e partire per un posto lontano. Il Raccordo in effetti è come una terra lontana da tutto.
È anche un film in cui ci sono tanti momenti di comicità.
Qualcuno l’ha definito un documentario-commedia all’italiana. In effetti si deve ridere, però ci sono anche momenti commoventi.
Il film è anche una riflessione interessante sull’urbanistica che evita i tecnicismi della disciplina. Un luogo anonimo come un raccordo autostradale diventa un luogo di negoziazione di storie.
E di tanti futuri possibili. Il titolo del film-ritratto che ho realizzato su Nicolini, dedicato a questo giro che abbiamo fatto insieme, infatti si chiama “Tanti futuri possibili”. Che sono quelli del Raccordo.
Molti film contemporanei, soprattutto documentari, decidono di raccontare una storia da un punto di vista eccentrico o marginale. Mi pare che ci sia una certa difficoltà a raccontare il centro e la totalità delle cose. Il tuo film, invece, nonostante il luogo in cui è girato, tenta – come dicevi tu prima - di porsi nell’ottica di una possibile universalità della storia.
Sono d’accordo con quello che hai detto. Ma infatti il cinema che cos’è? È trasformazione. Per filmare la realtà, la realtà deve essere trasformata, perché ci deve essere una metafora. Un film è la metafora di una storia che vogliamo raccontare: se non c’è metafora non c’è cinema. Anche quando è documentario. Ce lo insegna Grierson, ce lo insegna Flaherty, ce lo insegna Lumière. Poi ci siamo incartati con il reportage, con l’osservazione, etc. C’è senz’altro anche tanta gente brava nel documentario. Però tutto quello che giro io lo penso per il grande schermo, non per la televisione. Penso in modo un po’ megalomane [ride] di avere una Arriflex, una Panavision 35mm e ogni fotogramma ha un peso enorme.
Come ti sei sentito, dopo tanti anni di lavoro all’estero, a tornare in Italia?
Ho fatto come se fossi ancora all’estero! Ho imparato ad amare Roma grazie al Raccordo Anulare. Sono scappato dal pantano romano e ho trovato questo luogo che mi ha fatto amare Roma.
E in termini produttivi?
Il mio produttore è stato generoso a lasciarmi il tempo e a non intervenire mai in nessuna forma nel film, forse anche troppo! [ride] Da quando ho detto di sì al progetto sono passati tre anni. Il primo anno è stato di ambientamento, poi c’è stato un anno e mezzo di girato e sei/sette mesi di montaggio.
Quanto materiale avevi quando hai iniziato il montaggio?
200 ore, però sui personaggi avevo 30 ore, forse. Ho girato tantissimo i luoghi per poi non usarli. C’è pochissimo di quel girato nel film. Ho ripreso molto i quartieri e poi ho buttato via tutto perché non volevo che il film avesse una mappatura. Mi serviva per orientarmi e per poter poi buttare via tutto. Puoi perderti solo quando sai la strada.