Full Metal Jacket è un film dominato dalle carrellate (quante!): a seguire, a procedere, ad accompagnare le marce dei marines. Pochi gli zoom, a spanne sei in tutto (Barry Lyndon ne contava quasi 40), tre dei quali piazzati a pochi minuti l'uno dall'altro, nella sequenza in cui la cecchina uccide Eightball, Doc Jay e Cowboy. In tutti e tre i casi, lo schema è identico: una semi soggettiva mostra la vietcong inquadrare nel mirino la vittima tra gli interstizi in calcestruzzo di un caseggiato diroccato. Poi parte lo zoom a isolare il bersaglio tra le rovine, e a ogni esecuzione è sempre più accentuato, violento. Il terzo è quasi da annali del poliziottesco. Come assecondando un pattern, a ogni zoom segue uno scavalcamento di campo che mostra i soldati dalla prospettiva ribaltata rispetto alla visuale iniziale, quella della donna: ripresi frontalmente, con la pallottola che gli esplode nel corpo. È una soluzione linguistica estrema, che spezza la simmetria dei carrelli. È come uno svolazzo Liberty in una casa di Le Corbusier, un'irruzione improvvisa del dionisiaco. È il sintomo del prevalere di un caos che ha l'aspetto di una ragazzina con le trecce (l'unico nemico visibile del film), che sta massacrando un plotone di uomini addestrati per uccidere. Durerà un quarto d'ora, fino all'assassinio della donna. Poi torneranno le carrellate ad accompagnare i vincitori, colonizzatori dell'immaginario che marciano tra le macerie intonando la Mickey Mouse March, mentre il soldato Joker già non vede l'ora di tornare ai sogni bagnati su Mary Jane Ficarotta. L'ordine è stato ripristinato, anche se sappiamo tutti come sarebbe finita, poi.