I film sono segni di segni e gli oggetti della messinscena il risultato di un raddoppiamento: in Blancanieves di Pablo Berger (presentato al festival di Pordenone, dopo essere già stato a Torino e Toronto) il concetto è chiaro già dai titoli di testa.
Il film si apre su un sipario rosso che, una volta spalancatosi, incornicia uno schermo cinematografico. Dal buio emerge il marchio dell’Arcadia Motion Pictures, la società di produzione. Dissolvenza in nero. Le didascalie iniziali, con i nomi degli interpreti principali e del regista, proseguono a pieno schermo, occupando tutto il campo visivo del quadro.
Questo segmento iniziale assume una forte connotazione metacinematografica che affronta direttamente la questione della configurazione strutturale dello statuto dell’immagine filmica. L’immagine che si affaccia non appare come immediatezza, presenza pura, ma reduplicazione, moltiplicazione, o, come direbbe Bertetto, «immagine dell’immagine». «"L’immagine mi dice se stessa”. […] Vale a dire, ciò che essa mi dice consiste nella sua propria struttura» (Wittgenstein, "Ricerche filosofiche").
Il regista esplicita che il film è sempre il prodotto di una messa in scena, è sempre il risultato di una simulazione. E qui, già dal titolo è evidente, si è di fronte a una doppia simulazione, visto che il termine di riferimento è l’universo favolistico e più nello specifico la celebre fiaba dei fratelli Grimm.
Berger rilegge Biancaneve inforcando occhiali surrealisti che gli permettono di rinquadrare il testo in una scura architettura stilistica assolutamente rigorosa, cogliendovi all’interno scene espressioniste, collisioni alogiche, flashback, occhi astiosi di gallina, momenti onirici ed estatici sconfinanti nell’incubo; le stesse visioni nere e capricciose, allucinate e deliranti che mandavano in solluchero quegli impertinenti stupratori di pallidi pleniluni. Filtra poi il tutto attraverso il patrimonio visionario dell’iconografia martirologica del barocco spagnolo, turgido e sovraccarico, grottesco come un inferno medievale.
Il surrealismo non ritorna però solo in termini di immaginario ma anche da un punto di vista tematico. Si irridono i riti grotteschi e le contraddizioni di una borghesia avidamente attaccata alla proprietà e alla tronfia immagine di sé. Su tutte la sequenza del mostruoso carosello per immortalarsi con l’illustre estinto. La salma del grande matador Antonio Villalta, padre di Carmen/Biancaneve, ucciso dalla moglie/matrigna Encarna, è agghindata in bell’uniforme ed esibita nel salotto buono per permettere la foto col defunto. Dalla vedova allegra alle prefiche inconsolabili, sono tutti ritratti con la lente deformante e graffiante del più caustico humour nero.
Alla maniera dei surrealisti poi per Berger l’amore è furia e cannibalismo, l’estasi è delitto, distruttivo e cruento sino al limite estremo del crimine; come quando lo chauffeur di Encarna, mentre sta soffocando Carmen per soddisfare la propria signora, è investito da un raptus erotico e cerca di approfittare sessualmente della vittima.
Ma anche quando l’amore non ha queste coloriture violente resta comunque un amour fou di poetica e tenera crudeltà. Carmen, in un mondo senza più principi azzurri e per questo condannata al sonno eterno dalla mela avvelenata, è costretta a orribile attrazione di un sgarrupato baraccone. Ma quando si spengono le luci e i mostri di cartapesta vanno a dormire, uno dei suoi nani la ama come può, con sofferenza e disperazione. Quello stesso amore di cui parla Breton, totale, incondizionato e passionale che lega due esseri e li isola dal resto del mondo: «questa parola amore, […] viene da noi qui ricondotta, è inutile dirlo, al suo senso stretto, e minaccioso, di attaccamento totale».