Per provare a capire perché Trainwreck, il nuovo film di Judd Apatow – uscito questa estate nelle sale americane e presentato in anteprima europea al Festival di Locarno – sia una tale delusione, conviene fare un passo indietro.
Vi ricordate Hollywood attorno al 2007/2008? Eravamo nel pieno degli anni della cosiddetta “Judd Apatow bubble”, quella per cui qualunque progetto in cui il regista losangelino venisse coinvolto, diventava sistematicamente un successo di pubblico e di critica: Knocked Up, Pineapple Express, Superbad, Forgetting Sarah Marshall etc. Poco importava che Apatow vi figurasse come regista, sceneggiatore o semplice produttore: le sue commedie portavano tutte un medesimo marchio di fabbrica e più o meno tutte riuscivano a funzionare a qualunque latitudine, dalle multisale della provincia americana ai circoli d’essai europei. Tant’è che molti parlarono persino di una sorta di “Apatow factory” e di un rilancio in grande stile della commedia americana di qualità.
Gli ingredienti erano sempre gli stessi: un manipolo di attori e sceneggiatori in stato di grazia (Seth Rogen, Jonah Hill, James Franco, Paul Rudd, Jason Siegel etc.), una comicità midcult fatta di punch-line e di sensibilità meta-riflessive, l’apprendimento della lezione degli stand-up comedian degli ultimi anni che sono stati tra i migliori a riflettere senza peli sulla lingua sull’inconscio della contemporaneità americana (basti pensare a Louis C.K.).
Il canto del cigno fu probabilmente Funny People del 2009: una commedia ambiziosa, con un retrogusto esistenzialista e amaro, che aveva come protagonista uno stand-up comedian malato terminale. Un film geniale, dove i joke erano puntellati da controcampi di gente che non rideva, e dove la comicità veniva elevata al livello speculativo. Apatow grazie a quel film venne definitivamente sdoganato come vero e proprio autore contemporaneo, con i Cahiers che gli dedicavano uno speciale nell’autunno del 2009 e la casa editrice cult Capricci che pubblicava un libro-monografia su di lui.
Poi, come sempre accade con le bolle, arriva il momento dello scoppio. Il pessimo e vanziniano Get Him to the Greeks, Seth Rogen che fa il salto di “qualità” (si fa per dire) nella Hollywood dei grandi blockbuster e una serie di progetti nei quali Apatow era a ruota di talenti evidentemente più in palla di lui (Lena Dunham in Girls e Kristen Wiig nell’ottimo Bridesmaids).
Che quel ciclo sia finito lo si vede anche e soprattutto in questo Trainwreck, il primo film dove Apatow figura come regista ma non come sceneggiatore e dove la responsabilità è tutta sulle spalle di Amy Schumer.
In Italia la conoscono ancora in pochi ma Amy Schumer è stata una delle cose più interessanti e intelligenti che siano passate nella televisione americana in questi ultimi anni. I suoi spettacoli di stand-up sono provocatori ma non si fermano alla volgarità di una Sarah Silverman, riescono a toccare i nervi scoperti dell’immaginario americano soprattutto in tema di sessismo e questione femminile. La Schumer è una specie di Louis C.K. in salsa femminista e dunque le aspettative erano legittimamente alte per questo sua esordio sul grande schermo con Apatow dietro alla macchina da presa.
Può accadere che due grandi talenti moltiplichino le proprie risorse, ma può anche accadere che si annullino. Ed è quello che succede in Trainwreck, la storia di una donna di mezza età che lavora in un pessimo giornale di entertainment maschile (che pubblica articoli come “la celebrity più brutta sotto i 6 anni”) e che vive negli eccessi di alcol, marijuana e sesso occasionale. Proprio all’inizio del film la vediamo svegliarsi in hangover nel letto di uno sconosciuto e scoprire con orrore di essere finita… a Staten Island (che per un newyorchese di Manhattan è come scoprire di svegliarsi all’inferno).
La Schumer è insomma la classica single che non crede alla coppia borghese mononucleare e che vive materialisticamente (e cinicamente) alla giornata, senza contemplare mai la possibilità di innamorarsi e di prendere sul serio una relazione. Fino naturalmente all’incontro con il protagonista maschile interpretato da Bill Hader che scompaginerà i suoi programmi di vita.
Trainwreck è insomma la classica rom-com del filone anti-cinico che ci vuole spiegare quanto per innamorarsi bisogna lasciare la sicurezza della propria vita e ricominciare da zero. Perché l’amore è anche e sempre la creazione di una figura soggettiva nuova, ed è dunque anche un romanzo di formazione. Fin qui, nulla di male. Il problema è che stavolta non vi è nulla più di questo, nemmeno la classica struttura hollywoodiana del doppio sacrificio, dove non si abbandona solo la comodità della vita passata per i rischi di quella nuova, ma si è pronti anche a sacrificare la stessa novità in nome della fedeltà a un amore che trova sempre un ostacolo in più del previsto (si trova l’amore solo quando si è pronti a rischiare tutto per perderlo).
Quil’impressione è proprio che Apatow voglia semplicemente dirci, in modo conservatore, che per abbracciare gli agi della coppia borghese americana sia necessario abbandonare ogni forma d’eccesso: che sia esso l’alcol o la sessualità promiscua. Con l’aggravante che sono solo i personaggi femminili a dover essere messi in riga mentre il personaggio di Bill Hader è sicuro da subito della superiorità della norma matrimoniale.
Trainwreck insomma porta un’altra freccia all’arco di chi ha sempre sostenuto (a nostro avviso, a torto) che Judd Apatow, dietro ai bong di Seth Rogen e all’eccentricità di Jonah Hill, fosse già da Knocked Up un cantore del normcore americano contemporaneo, che parlava alle insicurezze del maschio urbano upper-middle class e al suo bisogno di “normalità”. Non ci pare che questo fosse evidente già dai suoi primi – effettivamente geniali – film, ma certo è sempre più evidente che quella stagione della commedia americana degli anni zero sia giunta definitivamente al termine.