Luzifer dell’austriaco Peter Brunner, si apre con la dicitura “tratto da una storia vera”. E ancor di più, dopo la visione del film, permane la curiosità per quell’accenno alla realtà contenuta in una narrazione così perversa e malata da insinuarsi sottopelle. Johannes (interpretato dall’attore di teatro Franz Rogowski in una performance in stato di grazia), un uomo con evidenti deficit mentali, vive con la madre (Susanne Jensen, attrice non protagonista e pastore luterano nella vita) in un rifugio alpino isolato dal mondo. Le loro giornate sono costellate da preghiere e riti di purificazione sullo sfondo di una natura selvaggia che tentano di preservare dall’arrivo della civiltà, ovvero la costruzione di uno skylift. La madre di Johannes, vedova di un marito che non cessa di celebrare, ex alcolista e convertita alla fede, si vede offrire molti soldi per lasciare la sua casa ma rifiuta sempre. Fino a quando verrà costretta con la violenza a firmare il lascito e, fatta ubriacare con la forza, ripiomba nei demoni dell’alcol in una discesa irrefrenabile che la porterà alla morte. Johannes, privo della guida materna, sperimenta prima la sessualità con una dottoressa che li aiuta a curare gli animali, e poi si fa successore della progenitrice, nel riprodurre sgangheratamente la gestualità dei riti sacrali che lo accompagnavano quotidianamente, simboli di una fede animistica primitiva e pagana.
Chi è il demonio del titolo? Resta difficile rispondere con certezza. Si possono fare solo delle ipotesi. È la violenza del mondo esterno che passa sopra tutto per arrivare al suo scopo e distruggere quel paradiso naturalistico? È il demone dell’alcol che la donna si porta dentro? È la mente perversa di Johannes che si intuisce, attraverso dei flashback, aver compiuto varie efferatezze prima di isolarsi dal mondo civile? O è il falco addomesticato di Johannes che resta pur sempre un rapace e che lui chiama senza indossare il guanto per farsi conficcare gli artigli nella carne del polso? Brunner ha dichiarato nel pressbook che il suo obiettivo è tradurre gli stati d’animo interiori in cinema puro. Tarkovskij, nel suo magnifico testo Scolpire il tempo, distingueva i registi in due grandi categorie: gli artisti che creano il proprio mondo, e quelli che riproducono la realtà. In Luzifer ritroviamo proprio quel cosiddetto “cinema della poesia” tanto caro al regista russo, il quale dichiarava di appartenere a questa categoria. Un cinema che sfugge alle tradizionali leggi del tempo e crea un ritmo interno alla narrazione. Luzifer è un film non sempre comprensibile dal punto di vista delle concatenazioni logiche, ma con un fascino malato (non a caso prodotto da Ulrich Seidl…), dalla straordinaria potenza visiva fatta di immagini e suggestioni immaginifiche. Una su tutti la coraggiosa esposizione reiterata del corpo nudo di Susanne Jensen, ricoperto di tatuaggi e non più giovane, col seno cadente e la carne flaccida, che ci racconta il cinema nella sua più sublime ed esacerbata purezza.
Johannes e sua madre sono seguiti costantemente da dei droni che li spiano e ostacolano i loro gesti. Soprattutto invadono il silenzio con un ronzio assordante. Poi arriva addirittura la potente elica di un elicottero. Questi droni telecomandati che sorvolano meccanicamente lo spazio aereo sembrano contrapporsi al volo libero del falco di Johannes, in un’ulteriore contrapposizione tra natura umanistica e modernità meccanicistica. Le sequenze dei droni arancioni che si insinuano tra i due umani sono tra le più memorabili di Luzifer. Al punto che il finale del film è un’inquadratura di un drone che si avvicina sempre di più alla camera. Morti tutti gli umani, nello spazio vuoto, sono due sguardi meccanici a fronteggiarsi e a rinviarsi l’uno nell’altro, come in uno specchio.