Gleb Panfilov, classe 1934 e cinquanta anni di carriera alle spalle, è una vecchia conoscenza del Festival di Locarno. Nel 1968, il suo film d’esordio, Nessun orizzonte oltre il fuoco (No Path through Fire) vinse proprio a Locarno il massimo riconoscimento, il Pardo d’oro. Questa volta è Piazza Grande ad accoglierlo, con una nuova opera in anteprima mondiale ispirata all’intenso romanzo di Aleksandr Solženicyn, “Una giornata di Ivan Denisovič”.
Come il suo primo film, anche 100 Minutes racconta il periodo della Seconda Guerra Mondiale, ma soprattutto i successivi orrori provocati dal regime stalinista. Nella prima parte, Panfilov lascia spazio alla discesa agli inferi di Ivan Denisovič Šuchov, distintosi per meriti di guerra, il quale in poche ore passa dalle stelle alle stalle. Celebrato come eroe per aver distrutto numerosi carri armati tedeschi, è subito dopo condannato a dieci anni di lavori forzati in Siberia. La sua unica colpa è di essere rimasto prigioniero dei tedeschi per poche ore, prima di riuscire a fuggire e ritornare tra le linee russe. I superiori lo accusano di essere una spia tedesca e pertanto condannabile senza prove. Così l’uomo non rivedrà né l’amata moglie, né soprattutto le due figlie di 4 e 7 anni.
Panfilov ci racconta la storia di quest’uomo semplice che finisce suo malgrado schiacciato da un sistema iniquo che si prende gli anni migliori della sua vita, con apparente distacco registico, ma in realtà chiamando lo spettatore a prendere una propria posizione morale. Non si può restare indifferenti davanti ad alcuni episodi messi in scena. Come, per esempio, quando i tedeschi usano i russi fatti prigionieri come apripista davanti a una strada minata segnalata da bandierine rosse in mezzo alla neve bianca. Se si rifiutano di percorrerla vengono fucilati, se si spostano troppo ai lati gli sparano addosso, se vanno avanti esplodono sulle mine. Una sequenza visivamente durissima, con questi uomini spaesati e infreddoliti che cadono come birilli colpiti da più parti, piroettano nel cielo lanciati dalle bombe come pupazzi e poi precipitano nel biancore glaciale in corpi inermi e smembrati. La colpa della sopravvivenza a questo orrore, viene scontata in un Gulag. Dieci anni, dieci lunghi anni passa Šuchov a contare i giorni, ad aspettare le lettere della famiglia, a scoprire che la moglie è morta di rosolia e le figlie sono state messe in orfanotrofio. Ha con sé una foto presa con la sua famiglia prima di partire per la guerra, e la serba come una reliquia.
Poi, quando sta per essere liberato, un prigioniero molto bravo nel disegno al punto da godere dei favori dei superiori, gli regala un ritratto che ha fatto per lui. Šuchov lo guarda, incredulo, e non si riconosce. La sua immagine di sé è ferma alla fotografia che conserva. Il pittore gli conferma che si tratta di lui, ma egli non è convinto, non può essersi ridotto in quell’essere stanco e vecchio, dagli occhi spiritati e vuoti che aspetta seduto in una branda. Così lo mostra ai compagni di baracca e domanda loro chi è secondo loro la persona del dipinto. E più d’uno, senza esitazione, individuano lui nella figura del ritratto. Ecco lo spirito della regia di Panfilov, suggerire, senza additare. In questa sequenza semplice, com’è una persona semplice il protagonista del film, si racchiude l’anima di questo film. La trasformazione del volto e del corpo di Šuchov al punto che lui stesso non riesce a riconoscersi, è il tatuaggio indelebile che la guerra gli ha marchiato addosso.