Ci vuole coraggio a iniziare un film con un dialogo tra due persone di cui una non si vede e l’altra è di schiena. La persona inquadrata, nell’oscurità della notte, parla davanti a una fitta parete di vegetazione. Uno scambio di battute che dura a lungo, un dialogo da teatro dell’assurdo tra Gigi che ci tiene alle sue lussureggianti piante e il vicino (che non si vede) che lo esorta a tagliarle perché portano topi, insetti e chissà quali altre malattie. Già da questa inquadratura fissa iniziale si capisce la direzione che prenderà il film del regista friulano Alessandro Comodin. Infatti, il fuoricampo è un elemento chiave del suo linguaggio cinematografico, qui magnificamente padroneggiato. Gigi (un bravissimo Pier Luigi Mecchia che è lo zio del regista e interpreta se stesso) è un poliziotto municipale che vive di cose semplici, è l’antieroe per dirla con una definizione zavattiniana, quell’uomo comune che non fa sorgere complessi di inferiorità negli spettatori. Calvizie incipiente, un po’ di pancetta, un animo semplice e l’indole di chi non si arrabbia neppure davanti ai rimproveri gratuiti del suo superiore ma, anzi, gli viene da ridere.
Comodin ci descrive la vita di Gigi attraverso i pattugliamenti con la vettura di servizio. Perlustrazioni di routine quali la ricerca di un individuo segnalato che si aggira nei dintorni o monitorare un incendio di sterpaglie. È stato trovato vicino alla ferrovia un corpo senza vita, forse un suicidio ma meglio controllare. Vengono in mente gli infiniti tragitti automobilistici di Kiarostami e anche un po’ quel girovagare in Vespa di Moretti, mentre vediamo Gigi al volante della macchina, a volte da solo, a volte con un collega per i paesini e le strade di campagna. Si ferma, scambia due chiacchiere, risale in macchina, contatta il comando con la radio scoprendo che c’è una nuova collega di cui conosce soltanto la voce. È la vita fatta di piccoli accadimenti, di momenti morti antispettacolari eppure così quotidiani, così rassicuranti. Tutto sembra scorrere in superficie con leggerezza, senza scossoni. Eppure c’è così tanta grazia in queste immagini assolate e assorte, dove il tempo sembra scorrere lentamente e senza scadenze. Così tanta vita in queste conversazioni con i colleghi in macchina cantando insieme una canzone di Julio Iglesias o cazzeggiando di cose da niente. E poi c’è Paola. È meravigliosa l’attesa che riesce a creare Comodin quando Gigi parla con lei alla radio o quando domanda ai colleghi di descriverla fisicamente. Alta, mora con gli occhi azzurri. Nello spettatore cresce la curiosità per questo “fuoricampo” continuamente evocato e che si teme possa restare tale fino alla fine.
Sul volto di Gigi che conversa con la voce di lei passano tutte le sfaccettature delle emozioni: la curiosità, l’ironia, il piacere di flirtare, la sfacciataggine dell’invito a cena. E infine arriva Paola, giovane, senza malizia, con lo sguardo pulito e Gigi si confida con lei, raccontando la sua esperienza di quando, per la prima volta, ha accompagnato a fare un trattamento sanitario obbligatorio un ragazzo del suo paese che era diventato anche violento. Il ragazzo non ci voleva andare ma si era convinto perché si fidava di lui. Un momento intenso di puro cinema ripreso con una camera fissa e un piano sequenza, lungo tutto il tempo necessario perché Gigi riesca a esprimere il suo sconcerto e quel qualcosa che gli si è contorto dentro quando quel ragazzo era stato immobilizzato a forza e poi sedato, cadendo per terra di schianto. Un’emozione piccola che diventa epifania e Paola non replica, gli fa una carezza sulla spalla, come Monica Vitti alla fine di L’avventura di Antonioni. Una carezza lieve, senza parole che sarebbero superflue. E in quel gesto semplice di compassione silenziosa c’è tutto, c’è una vertigine, c’è qualcosa che si sgretola anche dentro ciascuno di noi.