Ambientato nel 1974, Annie Colère della francese Blandine Lenoir affronta un tema scomodo e più che mai di attualità. Annie, operaia e già madre di due bambini, resta incinta e vuole abortire. Fortunatamente, si imbatte nel MLAC, un’organizzazione che pratica aborti illegali in tutta sicurezza per le donne. Grazie a questa struttura, una rete fondata sulla condivisione dei saperi e l’empatia femminile, riesce ad affrontare questo difficile momento e a uscirne con una consapevolezza diversa, che la porterà a comprendere di voler dare una svolta alla sua vita. Non altrettanto si può dire per la sua amica e vicina di casa che, avendo praticato un aborto in condizioni deplorevoli, finirà per morire poco dopo.
Il film della Lenoir mette il dito nella piaga sull’argomento dibattuto dell’aborto, facendo venire in luce una serie di elementi tutt’altro che ovvi. Per esempio, molte delle donne che abortiscono sono sposate e hanno già altri figli, ma l’arrivo di una nuova gravidanza è impensabile per le ristrettezze economiche o per il terrore di un nuovo nato che si assomma all’occuparsi da sola di una famiglia già troppo numerosa. Si scopre così che, spesso, sono i mariti a impedire loro di tutelarsi con la contraccezione, pensando che la pillola le farà diventare grasse e vecchie, o altri falsi miti dettati dalla disinformazione. Emergono ritratti di donne succubi, inconsapevoli del proprio corpo e convinte che il loro ruolo sia semplicemente quello di dedicarsi alla famiglia e soddisfare le esigenze del consorte. La pellicola è come se fosse divisa in due parti. La prima, dove emergono dal punto di vista umano queste variegate figure femminili che si trovano, impreparate e disorientate, ad affrontare l’aborto come qualcosa di cui sbarazzarsi, da risolvere in fretta e sempre in solitudine. Nervose, agitate, terrorizzate perché alcune hanno già sperimentato questa drammatica esperienza con persone che lo praticavano con dei ferri da calza o altri metodi rischiosi e improvvisati. Donne che si sentono peccatrici e poco di buono, semplicemente per essere state messe incinta dal marito. Donne che vorrebbero tenere il bambino ma che non possono contare sull’appoggio di nessuno. E poi la seconda parte, più ideologica, dove vediamo Annie maturare, diventare lei stessa di supporto e di aiuto per le altre donne e contribuire alla battaglia per l’adozione della legge sull’aborto. Una trasformazione visibile anche fisicamente e nel cambio di abbigliamento. Annie che pedala sempre curva sulla sua bicicletta, si raddrizza sempre di più, prende coscienza di sé e offre passaggi a donne che le si stringono addosso, appoggiando la testa sulla sua schiena in una metafora dell’affidare e del prendersi cura, prima per lei inimmaginabile.
Il film ci regala alcuni momenti visivamente memorabili. La scena dell’aborto di Annie dove l’attrice che la interpreta, Laure Calamy, è di una bravura sconvolgente nel riprodurre tutta la gamma delle emozioni che la attraversano. Ma, soprattutto, la sequenza dove vengono imbarcati nel MLAC dei nuovi giovani dottori e, una delle infermiere più esperte, insiste a spiegare il modo gentile con cui ci si deve rivolgere a una donna in quella circostanza. Il giovane liquida la questione, strafottente. Allora l’infermiera gli dice di togliersi i pantaloni, lo fa sdraiare sul lettino ginecologico a gambe divaricate e gli si mette davanti. E il dottorino presuntuoso finalmente comprende che, qualunque donna si trovi a subire la violenza di una posizione simile, merita il massimo della cura e della gentilezza.